Premier League - Boxing Day sì, ma solo per i ricchi PDF Stampa E-mail
Martedì 30 Dicembre 2014 09:45

“Abbiamo gli stipendi che abbiamo perché la gente ama il calcio. Se la gente vuole il calcio il 26, noi siamo fieri di darglielo”. Come al solito José Mourinho non usa giri di parole per esprimere un concetto e regala questa risposta a un domanda di un collega che, alla caccia del titolo, provava a mettere il portoghese in difficoltà parlando di “stanchezza e troppe partite”.

 

 


Il tecnico del Chelsea però, a suo modo, il titolo l’ha regalato comunque. O meglio, ha fornito titolo e spunto. Nella festività inglese nata inizialmente per aiutare le classi più povere e dove i padroni erano soliti fare pacchetti omaggio alla working class – il Boxing Day, appunto – il calcio inglese, ogni anno, si scopre un poco alla volta sempre più classista.

In una giornata passata tra Stamford Bridge ed Emirates Stadium si può toccare con mano quel segno del passaggio dei tempi iniziato nel 1992, quando i club della vecchia First Division ebbero l’intuizione di staccarsi dalla Football League per seguire le regole del marketing e creare un prodotto, 22 anni dopo, in grado di coprire di soldi tanto le big quanto le piccole.

In ogni storia di successo c’è però un rovescio della medaglia che, nel caso delle Premier, riguarda proprio coloro i quali erano i soggetti principi del Boxing Day: la working class.

Ma procediamo un passo alla volta. La rivoluzione introdotta dalla Premier League ha spostato i confini del calcio inglese da Londra a Mumbai/Singapore/Bangkok/Shanghai, bombardando i televisori del sudest asiatico di calcio in primetime e creando nel corso degli anni una solida – e ampissima – base di tifosi. Il contemporaneo sviluppo del trasporto aereo e il progressivo abbattimento dei costi ha fatto sì, al tempo stesso, che parte della domanda asiatica si sia trasferita dal televisore al botteghino: è nato così il “turismo da stadio”.

La caratteristica di molti impianti inglesi è però quella di essere stadi salotto, dove per “salotto” intendiamo “ambiente confortevole non troppo grande”. In tutto il territorio di Sua Maestà solo 4 impianti superano i 50mila posti a sedere – Wembley, Old Trafford, Emirates Stadium, St. James’s Park – e il primo di questi è un’esclusiva dei Tre Leoni.

Facile intuire come di fronte a un numero relativamente basso di possibilità di accesso allo stadio, la dura legge del mercato sia intervenuta impietosa nel corso degli anni: a un aumentare della domanda – principalmente proveniente da asiatici abbienti desiderosi di vedere dal vivo i lontani idoli– è salito il costo di ticket e abbonamenti. E a rimetterci sono state sostanzialmente le working class delle squadre più quotate.

L’effetto creato da decine di Manchester United-Liverpool, Chelsea-Arsenal e via discorrendo trasmesse alle 12:45 è ben visibile dalla perfetta coincidenza tra dati statistici e realtà delle cose toccata con mano nel nostro viaggio tra gli stadi della Premier. Un buon esempio ci viene proprio da Chelsea e Arsenal. Il club di Roman Abramovich è la società in Europa che riesce a incassare più soldi da ogni singolo spettatore nel suo stadio. Ergo, i biglietti per i 41837 posti del The Bridge non vengono via a poco. I Gunners, invece, sono il club dove il season ticketpiù economico – un abbonamento – ha il costo più alto in Europa: 1014£ – al cambio odierno circa 1300€. Ecco perché in impianti come Stamford Bridge o l’Emirates è molto più semplice, nel 2014, trovare occhi a mandorla piuttosto che rumorosi signori– magari un po’ alticci – pronti a fare baccano.

Ed è proprio questo il rovescio della medaglia da tanti non valutato. Privati della loro base popolare più calda, gli stadi di Chelsea e Arsenal si sono trasformati in silenziosi salotti privi di quell’atmosfera che negli anni ’90 era servita alla Premier League stessa per affascinare l’altra parte di mondo. Un effetto collaterale ben visibile soprattutto tra gli spalti dei club più popolari e che non a caso viene preso a sfottò dalle tifoserie delle squadre più piccole, quest’ultime per ora solo parzialmente toccate dal fenomeno. E’ così quindi che il “Is this a library?” – “E’ questa una biblioteca?” –, autentico leitmotif del boxing day 2014, sia stato il coro più gettonato sia da parte dei tifosi del West Ham a Stamford Bridge che di quelli del QPR all’Emirates.

C’è poi chi prova a sopravvivere. Liverpool ad esempio. I Reds sono un caso particolare: come Chelsea, Arsenal e United sono una big d’Inghilterra e vivono connessi a quelle regole di mercato ma, al tempo stesso, la squadra e il suo stadio sono indissolubilmente legati alla città e alla sua working class che pur di non lasciare Anfield si è evidentemente dimostrata pronta ai sacrifici. Non è un caso però che proprio lì sia in atto la contestazione più aspra alle politiche societarie sui biglietti; così come non è un caso che la Kop resti il settore più caldo d’Inghilterra…

Il fenomeno dell’imborghesirsi degli stadi inglesi e la sua progressiva perdita di colore – e calore – rappresenta quindi un rovescio della medaglia che i fondatori delle Premier League non avevano valutato e continuano a non valutare. O, a voler essere più maliziosi, quel preciso compimento del piano incominciato agli inizi degli anni ’90: eliminare la parte più pericolosa del tifo che nelle due decadi precedenti aveva creato Oltremanica non pochi problemi; ma che messa alle strette dalle leggi, poi, aveva contribuito in maniera fondamentale a creare dalla metà dei ’90 l’immagine del prodotto.

Ecco perché le parole di José Mourinho, arrivate nella festività inizialmente dedicata all’estrazione più popolare della nazione, hanno dato lo spunto. “…la gente vuole il calcio e noi siamo fieri di darglielo”. Certo, a patto che possiate permettervelo.


[FONTE: Euro Sport]