La trattativa con Genny? Fu la polizia a volerla Stampa
Sabato 18 Aprile 2015 09:15

Avrei voluto scriverne il 3 maggio. Così, per ricordare quella vergogna un anno dopo. Lo dico ora, invece: lo Stato italiano ha strumentalizzato G. D. Sì, lui: ’a c. È avvenuto qualcosa di indecente. Ed è ora che qualcuno ne risponda. Chi? L’allora questore di Roma Massimo Mazza, per esempio, nel frattempo nominato direttore Risorse umane della Polizia.

 

Perché ora? Perché se in tanti si sono voluti riempire la bocca con quelle accuse di infamia giustamente mosse alla curva romanista per “risarcire” Antonella Leardi, ora mi pare non ci sia nessuno disposto ad ascoltare questa donna straordinaria a proposito di una cosa molto fastidiosa. Ovvero la strumentalizzazione compiuta dallo Stato ai danni di G. D., ultras del Napoli, capotifoso della curva A – almeno finché non si è deciso di fargliela pagare.
Domenica scorsa, durante la trasmissione di Lucia Annunziata “In mezz’ora”, su Rai Tre, Antonella Leardi ha testualmente detto che appunto «sono stati loro», cioè le autorità, «a trattare con G., e poi dopo lo hanno strumentalizzato». Suo marito Giovanni Esposito, in diretta con lei, ha aggiunto: «Hanno usato la figura di G. per non parlare di quello che era successo a nostro figlio». I genitori di Ciro si riferiscono innanzitutto agli uomini della Digos che trattarono con G. prima di Napoli-Fiorentina, quella notte maledetta. Prima che Marek Hamsik si avvicinasse al plexiglass della curva nord. Quella trattativa fu promossa dalla Questura, e condotta da chi, come gli uomini della Digos di Napoli, conosceva le gerarchie del tifo partenopeo. Nei concitati minuti che seguirono gli spari di Tor di Quinto, i responsabili dell’ordine pubblico cercarono di convincere i capi della tifoseria napoletana a non lasciare lo stadio. Fu questo l’oggetto della trattativa. Molti ragazzi delle curve partenopee avrebbero potuto testimoniarlo, se non avessero scelto di tenersi lontani dagli inquirenti in ossequio a un codice ultras calpestato dai romanisti. D. e gli altri capi del tifo confermarono alla Digos che avrebbero lasciato l’Olimpico, se le voci sulla morte di Ciro si fossero rivelate fondate. In curva nord si diceva questo: che il ragazzo non ce l’aveva fatta ma che si voleva tenere nascosta la notizia per ragioni di ordine pubblico. In migliaia erano pronti ad abbandonare gli spalti in segno di solidarietà con la vittima. L’eventualità creò il panico tra i responsabili della sicurezza. Migliaia di napoletani in giro per Roma, o comunque fuori dal recinto dallo stadio, apparvero un grave minaccia, da sventare ad ogni costo. D. non annunciò affatto di voler mettere a ferro e fuoco la Capitale. E soprattutto, non invocò la sospensione della finale. Spiegò che lui e il resto dei gruppi ultras se ne sarebbero semplicemente tornati a casa, perché non era accettabile ballare il valzer della Coppa Italia sulla pelle di un morto. Alcuni, aggiunse, sarebbero senz’altro andati a dare conforto ai genitori di Ciro. Ma la cosa importante era sottrarsi al rito di una partita a cui, dopo la tragedia, gli ultras non avevano più voglia di assistere.

C’era qualcosa di illegittimo in simili pretese? Evidentemente no. Fu la Questura a cercare di trattenere a tutti i costi gli ultras partenopei sugli spalti.

Dalla curva chiesero una rassicurazione sulle condizioni di Ciro. Possibilmente data da qualcuno di cui i tifosi potessero fidarsi. «Hamsik, il Capitano: a lui crediamo». Fu la polizia a trascinare Marek lì sotto per evitare che la curva si svuotasse. G. con lui non trattò: gli chiese semplicemente di giurargli che Ciro era vivo. Gli ultras credettero al Capitano. Ciononostante D. e diverse decine di esponenti delle curve lasciarono silenziosamente lo stadio e andarono all’ospedale. Trascorsero la notte lì davanti, a rappresentare con dignità la loro vicinanza al compagno e alla sua famiglia. Chissà perché del terribile G. si è detto tutto ma non questo.

Poi dopo venne la mistificazione. Dovevano usare la mostruosa “carogna” per parlare d’altro, per confondere una storia di cui nessuno ormai teneva più le fila. Proprio come Giovanni Esposito, papà di Ciro, ha detto a Lucia Annunziata. Qualcuno riconosca che andò esattamente così. Non c’è ragion di Stato che tenga, non siamo in Sudamerica. Non fate gli ipocriti. Antonella non può essere solo il lavacro delle vostre coscienze sporcate dal patetico piano sicurezza del 3 maggio.

[FONTE: Extra Napoli]