Gli assassini del calcio italiano... Stampa
Giovedì 19 Aprile 2012 19:48

Qualche giorno fa, dopo aver letto una piccola parte dell’introduzione del libro che sto scrivendo, mio figlio mi ha chiesto: “Papà, ho capito perché ti stai un po’ staccando dalla Lazio. Ma cosa ti manca di più del calcio del passato?”

 

Raramente resto senza parole, difficilmente mi manca una risposta immediata da dare ad una domanda, quasi mai devo fermarmi a pensare prima di dare una risposta a un quesito semplice. Ma con quella domanda mio figlio mi ha un po’ spiazzato. Alla soglia dei 50 anni, inevitabilmente si tende ad essere un po’ nostalgici, a vedere solo il bello del passato e a considerare triste e un po’ vuoto un presente che spesso e volentieri ci vede più spettatori che protagonisti. E’ umano. Provate a pensare quante volte avete sentito ripetere in passato da un nonno o da un padre storie che iniziavano sempre con la stessa frase: “Ai miei tempi, era tutto più bello, tutto più facile”. E magari erano tempi di guerra, tempi in cui anche il cibo scarseggiava, anni in cui si giocava in strada con un pallone fatto di stracci, in cui le spade erano in realtà dei bastoni di legno. Ma c’era la gioventù, c’era una vita davanti e la speranza di poter cambiare qualcosa a rendere tutto più bello, tutto più affascinante. Quando invece ti volti, fai due conti e ti rendi conto che gli anni ti sono scivolati via senza neanche accorgertene e che hai superato il cartello che indica la metà (teorica) del tuo cammino, invece che guardare avanti tendi a guardare indietro. E’ più facile, più comodo, ti spaventa di meno. Mentre riflettevo su queste cose, prendendo tempo perché non volevo dare la solita risposta banale e un po’ nostalgica, mi sono reso conto che c’è veramente una cosa che mi manca e che mi rende freddo e quasi distaccato, non solo dalla Lazio, ma dal calcio di oggi. “Mi manca il romanticismo”, gli ho risposto. E visto che un bambino di 9 anni non può comprendere una risposta del genere, ho tirato fuori un po’ di foto del passato, quaderni sui quali mi divertivo ad attaccare delle immagini (quasi sempre in bianco e nero) per fare una sorta di diario non degli avvenimenti, ma delle emozioni, di quello che mi colpiva. La prima foto che gli ho fatto vedere, era quella della gente ammassata sulla collinetta di Monte Mario, sotto la Madonna dorata che sovrasta lo stadio, tutti ripresi da dietro mentre in lontananza guardano l’Olimpico in marmo bianco e panche verdi che si erge maestoso sotto di loro. Niente copertura, la Curva Sud ben visibile e la Nord in cui per vedere la porta ti dovevi addirittura arrampicare su un albero. Da lì, più che vederla la partita la immaginavi, magari con l’orecchio attaccato alla radio. Io, dalla Tribuna Tevere, spesso mi disinteressavo della partita, alzavo gli occhi verso quella collina che brulicava di gente, li scrutavo con il binocolo e dentro di me sentivo di essere un fortunato, un privilegiato. A volte mi bastava quello per essere felice, perché di gioie in campo la Lazio ne regalava poche in quel continuo sali e scendi dalla Serie B alla Serie A. Mi mancano le bandiere delle squadre sui pennoni della tribuna Monte Mario, messe in ordine di classifica. Mi mancano le maglie con i numeri da 1 a 11, quelle che ti consentivano vedendo il numero del giocatore di capire immediatamente il ruolo. Ad esempio, quella maglia numero 4 di Wilson, che per anni mi ha fatto discutere con i miei compagni di scuola: perché per me il libero aveva il numero 4, anche se tutti gli altri liberi d’Italia indossavano il numero 6 e il numero quattro era riservato ai mediani. Ma il mio capitano aveva il numero 4, quindi quello era il numero giusto.

Mi manca la serenità con cui si andava allo stadio anni fa, senza barriere, senza perquisizioni, senza sbarre e tornelli da dover superare e che fanno assomigliare sempre più lo stadio ad una sorta di lager invece che ad un luogo di divertimento. Mi mancano le bandiere, non quelle da sventolare materialmente allo stadio, ma quelle in cui identificarsi. Anni fa i giocatori non baciavano la maglia dopo un gol, ma per quella maglia erano disposti a qualsiasi cosa. Certo, anche all’epoca c’erano quelli che si vendevano le partite, perché c’era chi aveva soldi per comprarle. Certo, anche all’epoca ho visto partite anche agli occhi di un bambino palesemente falsate a fine campionato, ma si diceva: “Vabbé, un pareggio fa comodo a tutti e due, si sa che è così”. E dietro quell’interesse comune non c’erano valanghe di soldi scommessi su un OVER o un UNDER per arrotondare ingaggi già da favola da parte di giocatori che cambiano maglia con la stessa facilità con cui cambiano le mutande. Certo, all’epoca c’era il vincolo che a volte era una prigione, quasi una sorta di schiavitù che legava i giocatori al club e consentiva ai dirigenti di ricattarli con la tipica frase “ti faccio smettere di giocare a calcio”. Ma c’erano anche tanti campioni che pur di restare fedeli ad una maglia o alla gente, rinunciavano a montagne di soldi. Penso a Gigi Riva, ad esempio, che ha vissuto tutta la sua carriera a Cagliari vincendo un decimo di quello che avrebbe vinto giocando con il Milan, l’Inter o alla Juventus, che pur di restare in Sardegna (lui che era nato a Leggiuno, un paesino in provincia di Varese) aveva rinunciato a guadagnare il doppio di quello che gli poteva dare il Cagliari. Il suo è stato un atto d’amore e di riconoscenza, la sua è stata una scelta di vita vera, non quelle di gente che oggi spaccia un ingaggio di 5-6 milioni di euro netti all’anno come scelte di vita o atti d’amore verso una maglia o una città. Le scelte di vita e gli atti d’amore, erano quelli che portavano uno come D’Amico a lasciare dopo un anno di esilio il Torino in Serie A per tornare in una Lazio che faticava a restare in Serie B e per salvarla dalla Serie C con una tripletta nella partita decisiva contro il Varese, oppure anni prima guidando anni prima un manipolo di ragazzi (con mezza squadra rinchiusa a Regina Coeli per il primo scandalo scommesse della storia) alla vittoria contro il Catanzaro.

In quelle partite e in quegli anni c’era un qualcosa che rendeva tutto speciale, che ti faceva sentire parte di qualcosa di unico, come nell’anno del “-9”, ad esempio. Chi ha vissuto quella stagione, non potrà mai dimenticare le sensazioni provate in quell’anno, il boato rabbioso e interminabile dopo il gol di Fiorini al Vicenza, le lacrime dopo il fischio finale di Casarin a Napoli nello spareggio con il Campobasso che metteva la parola fine ad un incubo durato 11 mesi. Retorica? Sergio Cragnotti lo ha pensato per anni, si è arrabbiato e a volte infuriato quando la gente parlava più del gol di Fiorini che delle imprese di una squadra che stava vincendo tutto. Lo considerava uno sciocco sentimentalismo, quasi uno schiaffo ai suoi sforzi e ai suoi grandi investimenti, poi quando è caduto in disgrazia e si è trovato un popolo radunato fuori a Regina Coeli per dargli forza nel momento del bisogno, anche lui ha capito tante cose, soprattutto che cosa significa veramente per la gente laziale la “bandiera” e soprattutto il significato del termine “Lazialità”.

Oggi se una domenica piove gli stadi, coperti per riparare i tifosi dall’acqua che scende, sono vuoti o quasi. Guardate la foto dell’articolo, lo spettacolo di tutti quegli ombrelli aperti con lo stadio stracolmo nonostante la pioggia. Chi ha vissuto quei tempi tirorda le lotte con il vicino per mettere l’ombrello più in basso, in modo da evitare lo scolo dell’acqua dell’ombrello dell’altro, per evitare di fare la guerra con quella goccia che riusciva ad entrare sempre tra il collo e la camicia, rendendo vano sia l’ombrello che l’impermeabile. Ricordo le buste della spazzatura indossate facendo tre buchi per far passare testa e braccia, usate per proteggersi dalla pioggia in Curva, dove gli ombrelli erano banditi o quasi, perché considerati oggetti per donne o anziani.

Chi gestisce il calcio oggi, non si preoccupa di queste cose, non si preoccupa assolutamente dei sentimenti della gente, di preservare un pizzico di romanticismo intorno all’evento sportivo. Anzi, sempre più spesso i padroni del vapore parlano solo di numeri e di cifre, ti sbattono in faccia la realtà quasi con violenza, fanno di tutto per impedirti di sognare e per uccidere quel bambino che alberga dentro ogni tifoso. Quel bambino sognatore che per anni ha spinto i tifosi della Lazio, ad esempio, a riempire l’Olimpico anche se i protagonisti in campo si chiamavano Piga, Cupini, Camolese e Magnocavallo. Non era, all’epoca, il risultato a determinare l’affluenza. Allo stadio si andava soprattutto per passione, per romanticismo, convinti di essere parte integrante e indispensabile dello spettacolo, a volte anche protagonisti. Ora alle società rende di più un tifoso che si abbona a SKY piuttosto che uno che fa l’abbonamento per assistere alle partite di campionato, quindi il romanticismo è considerato quasi un nemico da dover contrastare e sconfiggere in tutti i modi. Senza pensare, che senza quell’elemento fondamentale che ti farebbe spendere qualsiasi cifra pur di vedere il Flaminio come nuova casa della Lazio, oppure che ti porta a chiudere gli occhi e a sognare (anche a 50 anni) di poter giocare un derby e segnare un gol decisivo all’ultimo minuto sotto la curva avversaria, imitando magari quel gesto di Giorgio Chinaglia, il calcio diventa una scatola vuota, un qualcosa di inutile che si può mettere anche facilmente da parte. Come sta succedendo qui a Roma in modo particolare e in Italia in generale.

Stefano Greco

[FONTE: SS Lazio Fans]