La coppa del mondo e l'aziendalizzazione del calcio Stampa
Venerdì 04 Luglio 2014 22:46

Gira la Palla, gira il Mondo. Alcuni pensano che il Sole sia una palla che brucia e compie il suo lavoro in giro per tutto l’universo, dandosi il cambio di notte con la Luna, nonostante gli scienziati abbiano qualche dubbio al riguardo.

 

Non c’è invece alcun dubbio nel fatto che il mondo stia da qualche tempo girando intorno ad una palla: la finale di Coppa del Mondo del 1994 fu vista da oltre due miliardi di persone, la folla più numerosa mai accomunata in un’azione nella storia dell’intero pianeta.

E’ la passione più largamente condivisa: gli ammiratori della palla giocano nei campi, nei pascoli e per le strade, oppure stanno lì seduti con gli occhi fissi allo schermo mangiandosi le unghie, mentre ventidue uomini in calzoncini corrono su e giù in un campo verde inseguendo e calciando una palla, dimostrando così la loro fede e il loro amore.  Alla fine del 1994 tutti i bambini nati in Brasile furono chiamati Romario e il manto erboso dello stadio di Los Angeles fu venduto come la pizza, a venti dollari la fetta.   Un po’ di follia degna di una migliore causa? Un’attività primitiva e volgare?  Un sacco di trucchi manipolati dai suoi proprietari?  Io sono tra quelli che pensano che il calcio sia un po’ di tutto queste cose, ma è anche molto di più: una festa per gli occhi che lo guardano e una gioia per il corpo che lo gioca.  Un giornalista una volta chiese alla teologa tedesca Dorothee Sölle, "Come spiegare a un bambino la felicità?".     “Io non la spiegherei” rispose. “Gli lancerei una palla e lo farei giocare”.

Il calcio professionale sta facendo di tutto per uccidere questa gioia di fondo, che tuttavia continua ad esistere.  Forse è per questo che il calcio continua a stupire. Come dice il mio amico Angel Ruocco, è questa la sua parte migliore – la sua ostinata capacità di sorprendere. Quanto più i tecnocrati tentano di programmarlo nei minimi particolari, tanto più il calcio continua a essere imprevedibile. Quando meno te lo aspetti, accade l’impossibile, il nano insegna al gigante una lezione e il piccolo uomo scuro dalle gambe storte fa sembrare ridicolo il  giocatore dal fisico statuario.
Esiste un vuoto sorprendente: la storia ufficiale ignora il calcio. Testi di storia contemporanea pare non parlino di calcio, neanche di sfuggita, neanche per quei paesi in cui esso è un simbolo primordiale d’identità collettiva.   Io gioco dunque sono: uno stile di gioco è un modo di essere che rivela quell’unico carattere di ogni comunità e afferma il suo diritto a essere diversa.  Dimmi come giochi e ti dirò chi sei. Per molti anni il calcio è stato giocato in diversi stili, espressioni uniche della personalità di ogni popolo. E oggi credo che la preservazione della diversità sia necessaria più che mai.  Viviamo un tempo di uniformità forzata, anche nel calcio. Mai il mondo è stato così disuguale nelle opportunità che offre e così uguale nelle abitudini di vita che impone.  In questo mondo attuale pervaso dalla decadenza, chi non muore di fame muore di noia.

Per anni mi sono sentito come sfidato dalla realtà del calcio e ho tentato di scrivere qualcosa degno di questo grandioso rito pagano capace di parlare tutte le lingue del mondo e scatenare una passione universale.  Scrivendo, avrei potuto realizzare con le mie mani quello che non ero mai riuscito a fare con i piedi:  impacciato fino all’inverosimile, vergogna di tutti i campi da gioco, avevo l’opportunità di chiedere alle parole quello che la palla mi aveva negato.
Questo libro è nato da questa sfida, da questo bisogno di espiazione.  Omaggio al calcio, celebrazione delle sue luci, denuncia delle sue ombre. Non so se il risultato è quello che desiderava il mondo del calcio, ma so che è cresciuto dentro di me e mi ha condotto fino all’ultima pagina. Ora che è nato, è tutto vostro. E sento in me quell’inevitabile malinconia che ci prende dopo aver fatto l’amore o alla fine di una partita.

[FONTE: Dodicesimo Uomo]