Stadi chiusi: la disfatta dei buffoni Stampa
Sabato 26 Ottobre 2013 10:05

In questi giorni di caos legato alla chiusura di San Siro per i cori dei tifosi del Milan contro i napoletani, il sistema calcio ha gettato la maschera. Questa schiera di buffoni a capo del secondo settore economico del Paese ha mostrato quale sia la loro idea di calcio del futuro oltre che di essere degli improbabili alla guida di una fuoriserie.

 

 

Come redazione di Senza Soste abbiamo sempre seguito le vicende delle normative legate agli stadi, denunciando che si trattava di un settore dove gli apparati repressivi sperimentano tecniche di sospensione delle libertà costituzionali per creare norme e tecnicismi che superino o integrino la legge stessa. Basta ricordarsi del Daspo e di tutti gli aggiramenti di legge di questa disposizione che ha una vita autonoma e parallela rispetto ad ogni procedura penale. Naturalmente lo dicevamo in tempi non sospetti quando la politica, anche quella più vicina a certe dinamiche antirepressive e di piazza, chiudeva gli occhi di fronte a questa sospensione delle libertà che sapeva di leggi speciali.

E’ vero, negli stadi venivano e vengono fatte anche molte cose stupide e penalmente perseguibili ma ciò non significa che si possa accettare leggi speciali. Anche perchè la stadio è rimasto in molte realtà l’ultimo luogo pubblico dove interagisce contemporaneamente una massa di persone e dove parole e comportamenti generano dibattiti, reazioni e culture popolari.

La linea di contenimento e repressione scelta dallo Stato è avvenuta in due tempi: la prima nel 2007 dopo la morte di Raciti. Tornelli, biglietti nominali, divieto di striscioni, tamburi e coreografie se non autorizzati dalle questure. Tutto questo accompagnato dalle tessera del tifoso entrata in vigore qualche anno dopo.

La seconda fase, in atto, è invece quella di cercare di sostituire il tifoso-ultras, ormai svuotato di ogni strumento, con i clienti fidelizzati. Una sostituzione che per ora ha avuto successo solo nel business televisivo che ha gonfiato sempre di più i soldi per i diritti tv e ha svuotato gli stadi, spostando il peso di influenza sul sistema sempre più verso le televisioni e a discapito dei tifosi e della passione verso lo sport.

Ma il calcio senza cornice è deprimente, anche se la tv nasconde bene l’alopecia degli spalti arrivando a inquadrare i teloni con i tifosi disegnati come a Trieste. Quindi, come è avvenuto in Inghilterra, l’obiettivo del sistema adesso è quello di sostituire la working class o il tifoso medio spesso proveniente da quartieri disagiati e con una capacità di spesa bassissima, con un tifoso delle classi medio-alte con capacità di spesa e possibile cliente anche del potenziale business legato ai nuovi stadi con tutto il consumo legato a ristoranti, store e gadgets vari. Non scordiamoci poi che la tessera del tifoso inizialmente era integrata in circuiti bancari e agli albori c’era un progetto di legare la tessera a particolari servizi e ricariche bancarie.

Nel nostro ultimo editoriale abbiamo cercato di spiegare questi passaggi che hanno portato fiino alla norma sulla discriminazione territoriale che non è altro che un allargamento estremo e privo di basi concrete del concetto di razzismo.

La Champions League, massimo torneo dell’Uefa e di gran lunga il più redditizio, non a caso ha tra gli sponsor la MasterCard, un prodotto finanziario per lo shopping che si propone come protagonista in tutta la filiera del piacere da quello delle merci fino a quella dimensione sfuggente “che non ha prezzo”. E tra i tifosi MasterCard, quelli ad alto consumo complesso e alta influenza nel marketing, il calcio dell’”odio”, che sia razzismo o campanilismo, non piace. Il calcio europeo, una volta entrato nell’orbita degli sponsor dello spettacolo globale si modella, come per ogni sport, sul modello normativo dei desideri del tifoso upper class politicamente corretto.

Non è difficile capire che, al di là dell’aberrazione dei vari ululati e cori razzisti, in un calcio ormai denazionalizzato e in una fase avanzata post-Bosman, diventato ormai un prodotto globale da vendere, il razzismo rappresenti oltre che una piaga culturale anche un danno d’immagine e quindi economico per il sistema. Mentre tutte le squadre più blasonate vanno in giro per il mondo a fare preparazioni, esibizioni, tornei e hanno sponsor scritti in cirillico e cinese qui si continua a fare gli ululati o a impiccare alle balaustre i pupazzi neri? Sono cose ridicole e discriminatorie perchè in ogni caso attaccano e spregiano una situazione reale di esistenza drammatica per milioni di persone che nel mondo seguono il calcio europeo e vivono situazioni disperate.

Ma già che c’erano, i padroni del calcio hanno messo anche il divieto sui simboli politici e gli striscioni commemorativi o rivendicativi. Il business, secondo loro, non deve aver nemmeno colore politico, potrebbe distrurbare, sia il cliente da divano che il manovratore. L’obiettivo vero infatti è annullare la valenza conflittuale o rivendicativa della massa per riportare tutto a un politically correct di Stato dove i minuti di raccoglimento o i messaggi politici sono distribuiti con parsimonia e solo ufficilamente dall’alto verso il basso. Un modo come un altro per plasmare le masse e renderle innocue.

Ma l’apice si è raggiunto con la norma sulla discriminazione territoriale che riportiamo qui sotto

L’art. 11, comma 1, del Codice di Giustizia Sportiva che, testualmente, recita: “Costituisce comportamento discriminatorio, sanzionabile quale illecito disciplinare, ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine territoriale o etnica, ovvero configuri propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori”.

Infatti in questo caso si supera ogni steccato repressivo e si scende nel ridicolo. La norma sulla discriminazione territoriale è la rappresentazione vivente di un potere che non sa nemmeno interpretare i sentimenti della gente comune, che non sa guardare oltre la propria fame di business per vendere un prodotto perfetto e depurato da ogni sentimento. Perchè parliamoci chiaro, chiudere uno stadio per il coro “Napoli colera” che rappresenta uno dei tanti cori “storici” delle curve italiane è da cervelli malati. Non ci pare che a Napoli si muoia di colera, tanto che la domenica successiva i napoletani hanno fatti cori e striscioni contro se stessi come gesto di sfida ai palazzi del potere. E in questi giorni tante curve italiane hanno dichiarato che avrebbero fatto i loro cori contro le tifoserie “nemiche” di altre città ogni domenica. Fine del calcio? No, i palazzi del potere se la sono fatta addosso e San Siro domenica sarà aperto in attesa di un più serio approfondimento delle norme. I marziani, quindi, si sono resi conto di essere sulla terra? Forse sì, perchè, calcolatrice alla mano, hanno capito che il loro mondo ovattato di norme, business e grattacieli con i vetri a specchio è parecchio lontano dalla realtà e che se vogliono continuare a vendere il loro prodotto devono darsi una regolata.

Intanto non sarebbe male che a Livorno si riniziasse a cantare i cori a noi tanto cari: “Como merda i tuoi monti verranno giù”, “Sei un pisano tifoso contadino”, “Veronesi tutti appesi” e tanti altri. E’ giusto rispolverare ogni comportamento che disturbi il palazzo. Non per ribellismo fine a sè stesso ma per riappropriarci di spazi e parole che i padroni del calcio vogliono occupare. Con il rischio di sentire in giro per gli stadi anche cose stupide e aberrazioni, ma che non saranno mai pericolose come il mondo che ci propinano loro, dall’alto. Perchè chi non riconosce un coro sfottò per “tifare contro” da un coro che offende o umilia un popolo sulla base di fatti drammatici realmente accaduti e ancora vivi nel sentimento popolare è da persone malate e pericolose.

[FONTE: Senza Soste]