Un calcio da Playstation (di Massimo Fini da www.ilfattoquotidiano.it) PDF Stampa E-mail
Sabato 11 Giugno 2011 08:17

Nel 1982, dopo la vittoria dell’Italia ai Mondiali di Spagna e la decisione di introdurre il “terzo straniero”, scrissi per il Giorno un articolo in cui dicevo che il calcio andava a morire. Ma, data la sua fortissima struttura pensavo che l’erosione sarebbe avvenuta molto lentamente e non mi sarei mai aspettato che ne avrei visto la fine, o quasi, nell’arco della mia vita. Non mi riferisco qui agli scandali che hanno recentemente coinvolto società di B e anche di A, che sono solo un epifenomeno, oltretutto abbastanza circoscritto se paragonato a quanto avviene di analogo in altri settori della società (politica, finanza), della ben più profonda corruzione che negli ultimi decenni ha corroso il mondo del calcio e il suo significato più autentico. Il calcio (come altri sport minori, rugby per esempio, che questo significato hanno conservato) prima di essere spettacolo, prima di essere gioco, prima di essere sport è (o per essere più precisi: era) un rito collettivo. Una liturgia. Era l’ultimo spazio rimasto al sacro in una società che sotto la spinta della razionalizzazione economica si è completamente secolarizzata. Perché è basato su un elemento del tutto gratuito, la passione del tifoso, il quale gioisce come un bambino se la sua squadra vince o si dispera se perde, senza che questo abbia per lui, nell’uno o nell’altro caso, alcun significato economico.

Una liturgia (un mito) è per sua natura tendenzialmente immutabile, come sapevano bene i Greci e anche la Chiesa cattolica prima che, col papato di Wojtyla, perdesse la sua sapienza. Se qualche cambiamento deve essere apportato lo si deve fare con estrema cautela. Son come le fiabe che racconti ai tuoi bambini, i quali vogliono che tu le ripeta ogni volta come gliele hai narrate la prima volta, immutate in ogni particolare. I tifosi sono come quei bambini.

Il business, l’astrazione del denaro, ha svuotato il calcio di tutti i suoi contenuti rituali, mitici, simbolici, magici, irrazionali, identitari. Addio alla Messa domenicale. Oggi, per il business televisivo, le partite sono spalmate su quattro giorni, dal venerdì al lunedì, e se è turno di Coppa dei Campioni (io preferisco chiamarla ancora così, anche se ormai, sempre per esigenze di business, è un’altra cosa) e di Uefa su tutta la settimana. Un’overdose che ammazzerebbe anche un toro. Fine anche del sub-rito del sabato, della schedina giocata al bar con gli amici. I calciatori cambiano squadra ogni anno per essere sostituiti da “novità” ritenute più stuzzicanti o durante lo stesso campionato (con buona pace della regolarità della competizione), non esistono più giocatori-simbolo, campioni che hanno fatto tutta la loro carriera in una sola squadra (Totti è stato, e sarà, l’ultimo, un’eccezione comunque rispetto all’epoca dei Rivera, dei Mazzola, degli Antognoni, dei Riva, dei Bulgarelli), persino le maglie, per interesse degli sponsor, non sono più quelle, ci sono squadre, in Italia e in Europa (che sono il centro del business) che giocano con undici stranieri.

Il processo di identificazione, il riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nelle sue maglie, nei suoi colori, nel suo carattere, la cui continuità era assicurata dal passaggio di testimone, di generazione in generazione, fra gli “anziani” e i giovani dei vivai (oggi semidistrutti dalla sentenza Bosman che ha portato nel calcio, cioè anche nella sfera del sacro, le ferree leggi del mercato) è diventato quasi impossibile. Ci vuole un grande sforzo di immaginazione, un voler illudersi a tutti i costi che il calcio, così come lo abbiamo vissuto per un secolo, esista ancora. Non per nulla qualche anno fa gli ultras, i terribili ultras, i demonizzati ultras, in rappresentanza di 78 società di A, di B, di C e delle serie minori, organizzarono a Milano, davanti alla Figc, in una domenica canicolare di giugno, una civilissima e composta manifestazione al grido di “Ridateci il calcio di una volta!”. Ma non furono ascoltati. Non se ne dette quasi notizia, nemmeno sulla Gazzetta dello Sport. Disturbavano il manovratore.

Il calcio da stadio, l’unico, vero, calcio ha perso, dal 1982, anno simbolicamente della svolta, il 40% degli spettatori. E ha perso anche la sua caratteristica di evento nazionalpopolare, di “festa di tutti”, interclassista, con un’importante funzione sociale: sulle gradinate sedevano fianco a fianco, uniti dalla stessa passione, il piccolo e il medio imprenditore e il suo operaio. La politica degli abbonamenti (denaro fresco da incassare a prescindere) e dei prezzi ha distrutto il senso di ritrovarsi insieme in modo comunitario, la suburra va dietro le porte, gli altri, a seconda del proprio status, nelle diverse tribune. Chi può permetterselo guarda la partita su Sky, dove l’implacabile moviola va a cercare i labiali dei giocatori, gli sputi, le sacrosante bestemmie, gli scazzottamenti alle spalle dell’arbitro e insomma una parte importante del calcio (divenuta proibitissima, vietatissima, sanzionatissima) che è una metafora della guerra e come tale viene vissuta dai tifosi. Uno sfogo di aggressività salutare, se circoscritto e incanalato nelle due ore della partita, ad evitare guai peggiori, i “delitti delle villette a schiera” come li chiama Guido Ceronetti.

Questo calcio pulitino, televisivo, asettico è certamente politically correct e, soprattutto economically correct, ma il risultato è che quanto in esso vi è di più concretamente umano, e cioè i valori rituali, mitici, simbolici, sociali di cui parlavo, è stato sacrificato all’astrazione-denaro. Al loro posto resta la vuota forma della partita che domani potrebbe anche diventare, come tutto il resto, virtuale. Una PlayStation. Una perfetta simulazione, senza possibilità di errore, sull’iPad.

Ad ogni buon conto il calcio va a ridursi progressivamente a un qualunque spettacolo televisivo, a una Domenica in, da fruirsi solipsisticamente a casa, fra una telefonata al cellulare e una visitina al frigo. Perdendo tutti i suoi connotati specifici susciterà un interesse sempre più generico, vago, intercambiabile che, come tale, prima o poi svanirà. Così gli apprendisti stregoni, a furia di spremerla, avranno ucciso “la gallina dalle uova d’oro” e il razionalismo nella forma del denaro avrà realizzato, è il caso di dirlo, l’ennesimo autogol.

Il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2011