"Noi siamo i Boys Parma 1977": intervista agli ultras gialloblù (Parte 1) PDF Stampa E-mail
Venerdì 03 Agosto 2018 14:37

Pubblichiamo qui di seguito l’intervista fatta da Sport People al nostro Gruppo.

 

 

Arrivo lungo a questo appuntamento con i “Boys” che avrei già voluto intervistare la scorsa stagione, in occasione del loro quarantennale. Ma per una rivista gratis et amore Dei come la nostra, le tempistiche dei desideri devono spesso andare in deroga alle necessità pratiche e alle incombenze quotidiane. Mi ritrovo così un anno dopo ospite nella loro nuova sede, ottenuta con un bando comunale in cui hanno avuto la meglio grazie alle numerose attività benefiche svolte sul territorio. Sul prato mi accoglie la stele commemorativa per Matteo Bagnaresi, che per le solite incomprensibili ragioni burocratiche non ha potuto trovare spazio nella maledetta stazione di servizio di Crocetta.

La vecchia sede sembra appartenere ad un’era geologica fa, sembra curiosamente rappresentare una sorta di spartiacque fra la storia passata del Parma Calcio e quella della sua recente rinascita. Lo spirito del gruppo però è lo stesso di sempre, galvanizzato dalla cavalcata della squadra che dalla D sta giocandosi concretamente un posto per tornare in Serie A (che poi conquisterà, almeno sul campo e con le immancabili polemiche fuori da esso), ma con i piedi ben piantati per terra. Che a volare troppo alto ci si è fatti già abbastanza male, allorquando il sogno del ritorno in Europa segnò l’inizio della fine dell’era Ghirardi e il definitivo fallimento dei ducali.

È la mattina di Parma-Carpi di Serie B e mi ritrovo faccia a faccia con quattro esponenti dei “Boys”, diverse generazioni a confronto dalle cui diverse esperienze di militanza posso attingere tutte le informazioni possibili e immaginabili sul gruppo, dalla sua fondazione a oggi. Così inizia la nostra piacevole chiacchierata, per la cui disponibilità dimostrata li ringrazio enormemente: in tal senso, la tempistica della pubblicazione la si può ritenere una sorta di regalo per il loro 41esimo anniversario, che ricorre proprio oggi 3 agosto.
È stato per me un grande onore intervistarli e spero che sia altrettanto piacevole per chi leggerà il (seppur prolisso) frutto di questo incontro.

Partiamo dall’inizio: sono passati quarant’anni da quel 3 agosto 1977, la storia dei “Boys” percorre in parallelo quasi per intero la storia del movimento ultras italiano. Ma c’era vita prima di voi in città, anche lontanamente paragonabile a quella ultras?

Intanto abbiamo scoperto da poco, ritrovando e collegando alcuni documenti fotografici che, contrariamente a quanto abbiamo sempre scritto nella nostra storiografia ufficiale, non fu a Ferrara, a fine settembre 1977, che i “Boys” portarono per la prima volta lo striscione in uno stadio. Bensì la sua prima apparizione risale al 18 settembre del 1977 in casa contro la Massese, nella seconda gara di campionato dell’allora Serie C. E questa è già una novità che fino ad oggi non era stata documentata.

Per quanto riguarda la genesi, bisogna risalire al 1973, anno in cui furono fondati i “Dané”, che in dialetto vuol dire “Dannati”. Prima di loro c’erano già dei club: “Madonnina” per esempio, forse il più antico di Parma che oggi non c’è più. Ma nel ’73 i “Dané” furono i primi a portare una sorta di coreografia in Curva. Che poi non era proprio una Curva, era un pezzo laterale del Distinti che era ancora settore Popolare, attaccato alla Curva Sud. Allora la Curva Sud, come del resto la Nord, erano quattro o cinque gradini in cemento, ma solo la Sud aveva un’aggiunta in tubi Innocenti e il tifo più caldo si posizionava proprio in quel settore.

I “Dané” confezionarono i loro primi striscioni in maniera molto artigianale, con delle scritte a spray su dei lenzuoli. Subito dopo, quasi contemporaneamente, fecero la loro apparizione le “Furie crociate” che si posizionavano in Curva Sud, di fianco a questo settore laterale che ospitava i loro predecessori. Questi qui erano i due gruppi che prima dei “Boys” davano colore al tifo del “Tardini”.

A gennaio del 1977 fece capolino lo striscione “Ultras”, bianco con scritta nera. L’anno dopo venne aggiunto un teschio e fu lì che forse cominciò la fecondazione del primo embrione di movimento ultras cittadino. I “Dané” erano sì tifosi caldi, ma per attitudine più simili a un club che a un prototipo di gruppo ultras. Furono però sempre loro a portare i primi fumogeni, anche se poi saranno proprio i “Boys” ad usarli con più regolarità al pari degli estintori, che in quegli anni, trafugati dai garage della città, si usavano spesso in alternativa ai meno reperibili o più costosi fumogeni per creare nuvole di fumo.

Da segnalare anche i “Panthers”, che erano un gruppo rappresentativo di una compagnia di via Milano, quasi contemporaneo dei “Boys”, ai quali si affiancarono da subito e sempre. Infine ad agosto del ’77 arrivarono finalmente i “Boys”, ma va detto che la data risulta ipotetica in quanto non esiste nessun documento ufficiale che ne certifichi l’esattezza. La prima dicitura del gruppo fu “Parma Club Boys”, però da subito si notarono tratti nettamente distinti dai club di semplici tifosi che andavano per la maggiore in quell’epoca.

Nato nel pieno del fermento politico extra-parlamentare, il movimento ultras è stato per molti versi una gemmazione dei movimenti di piazza da cui riprendeva diverse caratteristiche. La diffusione dalle metropoli alle città di provincia fino all’estrema periferia, è poi avvenuta spesso e volentieri per imitazione. Nel vostro caso, l’influenza anche solo da un punto di vista puramente stilistico è da ricercarsi più negli stadi o nelle piazze?

Fin dall’inizio nei “Boys” erano presenti elementi sia di destra che di sinistra. Senza particolari problemi a livello di coesistenza. Non c’era una particolare ispirazione ai movimenti di piazza, anche se la simbologia talvolta li richiamava. In quei primi anni, come succedeva un po’ in tutte le altre curve dell’epoca, anche a Parma c’erano diversi elementi mutuati dalla politica come i lanciarazzi, i giubbotti mimetici o il basco.

Per qualche anno il capo dei “Boys” fu un militante di “Autonomia Operaia” che rappresentava una minoranza in senso politico in Curva, mentre la maggioranza era invece schierata dall’altra parte, ma essendo lui il leader c’era una lettura fuorviata della tendenza politica del gruppo, che poi in realtà era molto eterogeneo. Allo stesso modo c’erano tanti soprannomi che richiamavano la militanza politica del singolo individuo: c’era “l’autonomo”, c’era “lo skin” e tanti altri, ma non ci sono mai stati problemi di convivenza all’interno del gruppo, che è stato sempre posto al di sopra di tutto.

L’influenza stilistica maggiore derivava da altri gruppi ultras delle metropoli o dalle prime immagini che si potevano vedere sulle riviste o alla televisione. Non di meno e per onestà va detto che aveva un certo peso anche la “doppia squadra”, nel senso che eravamo sì ultras del Parma, ma con i gialloblù nei bassifondi della piramide calcistica e con la mentalità che non era ancora radicalizzata come oggi, fra di noi c’erano molti che tifavano Inter, Milan o Juve e quindi si attingevano esperienze e novità anche frequentando altri stadi.

Fra la prima metà degli anni ’80 e fino alla metà dei ’90, abbiamo poi sempre subito il fascino delle “Brigate Gialloblu”. Lo stile di riferimento era sicuramente il loro, in quel periodo storico. Tendenza emersa non subito dato che nei primi anni ’80, nei nostri primissimi anni di vita, ci scontrammo con i veronesi in Curva Sud per poi paradossalmente arrivare al gemellaggio qualche anno dopo.

Anche per il nome vi siete fatti ispirare da questi riferimenti metropolitani?

Il nome “Boys” non deve nulla alla frequentazione di altre curve, di altri stadi. Si è sempre pensato che la parola “Ultras” fosse abbastanza inflazionata già allora, quindi per contraddistinguere maggiormente il gruppo rispetto ad altri si scelse “Boys”.
Una cosa ancora più originale è invece la scelta dei colori, perché il Parma in quegli anni giocava con la maglia bianca con la croce nera, ma con la nostra comparsa nel ’77, scelta stilistica che ancor prima fecero i “Dané”, gli striscioni del gruppo portavano i colori gialloblù, ossia i colori della città. E questa è una scelta davvero originale e innovativa per quei tempi, che personalmente rivendichiamo con orgoglio e che dà proprio l’idea di quanto il gruppo fosse e sia ancora legato alla città, al territorio.

Molti gruppi ultras dell’epoca nacquero per ribellione e come risposta violenta ai “club” di tifosi, molto meno turbolenti da quel punto di vista. Fu così anche per voi?

L’ispirazione iniziale, come detto, nasce dopo aver visto all’opera, anche in città vicine, gli altri gruppi organizzati partiti prima di noi proprio come ultras. E anche l’aspetto dello scontro, del confronto con la Curva avversaria, inutile negarlo, ha affascinato fin dall’inizio e ovviamente è stato praticato.

Il movimento Ultras a Parma è quindi nato da subito con una connotazione violenta. Fecero scalpore in tal senso alcune lettere minatorie indirizzate alla società che faticava a salire di categoria. Il primo nucleo di ultras ovviamente non aveva le risorse necessarie per acquistare striscioni o altro materiale con cui esprimersi alternativamente, per cui tali lettere erano il modo più diretto, per quanto rozzo, per esprimere malcontento alla società, minacciata con il proposito di tafferugli o di distruggere gli impianti. Due di queste lettere, a suo tempo, furono pubblicate dalla “Gazzetta di Parma”: la prima con una stella a cinque punte a firma “Brigate”, quindi con la caratterizzazione di sinistra; una seconda praticamente identica ma firmata “Ultras” e vergata con una svastica. Questo, oltre a far capire quale fosse la confusione politica che ci poteva essere a quel tempo, da parte di ragazzi comunque giovanissimi, sottolinea ulteriormente la loro propensione violenta, riassunta anche da un passaggio di quelle famose lettere: “noi ci sentiamo nati in funzione del panico e della violenza “.

Rappresentativamente interclassista, ci trovavi tanto il figlio dell’operaio quanto del medico, ma l’attitudine era invariabilmente violenta: il gruppo ultras, come molti altri all’epoca, poteva essere visto un po’ come il settore giovanile dei club, dai quali dopo un po’ inevitabilmente si staccava per poter esprimere quei lati del proprio carattere che la generazione degli adulti, incarnata dai suddetti club, tendeva invece a censurare.

A guardarlo dall’esterno, il vostro gruppo sembra scandire in maniera molto netta i suoi principali periodi storici: è davvero così? Si possono in qualche modo distinguere le diverse generazioni che si sono succedute al vostro interno?

In effetti, negli anni abbiamo cadenzato abbastanza nettamente i decenni che ci hanno caratterizzato, legati a una serie di determinati eventi che hanno coinciso o a volte causato un cambio generazionale. Si può dire che le macro-generazioni che si sono susseguite all’interno del gruppo siano state quattro. La prima, legata agli inizi del gruppo, che prende dunque le mosse dal 1977, si conclude il 4 maggio del 1986: in quel giorno ci furono duri scontri con le forze dell’ordine durante il derby e da lì la seconda generazione partì quasi obbligatoriamente a seguito della prima ondata di arresti che azzerò tutto. Varese fu la trasferta successiva a quegli scontri: ai pochi reduci la dura decisione se andar con lo striscione e soprattutto il duro compito di affrontare il futuro. Nonostante la squadra alla fine di quella stagione raggiunse la promozione in Serie B, da lì seguirono un paio di stagioni anonime in campo e ancora di più sugli spalti, dove ancora si doveva trovare la quadratura del cerchio.

Fortunatamente arrivò la Serie A e l’iniezione di entusiasmo e di nuova linfa fu fondamentale, così la seconda generazione giunse praticamente fino a “Wembley”, dove chiuse il proprio ciclo in maniera non meno dolorosa della prima. Furono stagioni trionfali che riportarono praticamente tutti in massa allo stadio. Gli ottimi piazzamenti in Serie A, la Coppa delle Coppe, la Coppa Italia. Ma all’apoteosi di “Wembley” seguì il derby dell’anno successivo, nel 1994, in cui la percezione dei più fu che il Parma vendette la partita alla Reggiana e da lì si creò una frattura molto pesante nel gruppo per le modalità con cui affrontare quello che ai nostri occhi era un tradimento imperdonabile. Dopo Parma-Benfica il gruppo si ritrovò quindi diviso nettamente fra i molti che non avevano intenzione di cantare e chi invece voleva farlo, come poi effettivamente avvenne. A seguito della finale di Copenhagen, la spaccatura si rese evidente nell’ultima partita di campionato a Napoli, per la quale partirono solo 25 persone.

Il passaggio fra la seconda e la terza generazione fu però forse perfino più doloroso del primo: un conto è cambiare forma dopo un’ondata repressiva, un altro far fronte a divergenze interne e quel derby del 1994 risultò un vero e proprio spartiacque.

Da quella situazione nacque persino un altro gruppo, “Potere Crociato”. E a Parma, dove per diciassette anni, dal 1977 al 1994, in curva c’erano stati sempre e solo i “Boys”, ciò rappresentava sicuramente la rottura di un equilibrio fin lì saldissimo.

Quest’altro gruppo per dieci anni divise il cuore della curva in due, costringendo a vivere la curva in un altro modo, che non s’era mai visto. Un modo di vivere lo stadio che la gente che c’è adesso non potrà mai capire per quanto fu angustiante e controproducente. Ad ogni modo la terza generazione ripartì con quelli che erano rimasti nei “Boys”, tra i quali pochissimi dei vecchi, la maggior parte dei quali decise invece di andare via. A contraddistinguere questa terza generazione e ad amalgamarla in maniera probabilmente determinante, contribuì la scelta di mettere l’apertura di una sede al centro delle iniziative di questa nuova fase storica.

Questo terzo ciclo iniziato nel ’94, procedendo idealmente sempre per decenni, lo si può ritenere tale fino allo spareggio di Bologna del 2005. Nel mentre abbiamo perso, come detto, alcuni vecchi in maniera non proprio indolore, abbiamo preso le diffide di Parma-Juve che anch’esse hanno contribuito a tagliar fuori qualche altro vecchio, ma a metà strada è nata la sede che per certi versi ha rappresentato un punto di svolta. Il nucleo, gli ideali, la gente che si sono raccolti attorno a quel luogo d’incontro, hanno poi permesso di gettare le solide basi che ci hanno portano fino ad oggi.

Infine c’è la quarta generazione, battezzata col fuoco nel ritiro precampionato del 2005: noi andavamo a Sestola per Parma-Castelnuovo Garfagnana, lungo il tragitto, a Fanano, c’erano i Modenesi impegnati con la compagine locale, dopo di che è successo quello che alle cronache è noto.

Effettivamente fra il ’98 e il 2005 c’era pure stato un ricambio generazionale, ma la testa è sempre quella lì. Il modo di fare, gli ideali sono quelli maturati nella sede di Via Calestani 10 nel 1998. Lì è nato il modo di vivere ultras che ha caratterizzato il nostro gruppo negli ultimi vent’anni. Quando abbiamo iniziato a lavorare proprio per legare le varie generazioni ed evitare quegli stacchi generazionali improvvisi e spesso traumatici oppure far fronte alle varie ondate repressive.

Erroneamente “Crusaders Ultras Supporters” viene a volte scambiato per un gruppo spalla ed invece era solo un alter ego dei “Boys”. Da cosa nacque questa scelta? Pura questione “estetica” o c’erano anche motivazioni pratiche?

Molta gente c’ha marciato su questa cosa: chi voleva andare contro i “Boys” era solito dire “io sono del CUS”, quasi a tracciare una distanza, ma era una cosa che non esisteva. C’è chi fa striscioni di cinquanta metri con motti o frasi generiche che identifichino tutta la tifoseria, noi facemmo “Crusaders Ultras Supporters”, anche perché comunque ai tempi, tra gli anni ’70 e 80, la curva la prendevi mettendo gli striscioni. Era il tuo spazio e te lo prendevi, così non lo occupavano altri, era una presa di posizione prima che un atto di colore. Nel frattempo “Boys” era un nome che cominciava a moltiplicarsi, non eravamo più gli unici ad usarlo, “Crusaders Ultras Supporters” era ancora una volta una scelta unica nel suo genere, dettata dalla voglia di originalità, di identificarsi in maniera più perentoria nel panorama ultras.

Dopo la prima ondata di arrestati per esempio, la gente finì per identificarsi di più in “Crusaders Ultras Supporters”: il nucleo operativo era però sempre nei “Boys”, era sempre la stessa cosa. Alla stessa maniera nel ’91, quando siamo saliti in Serie A, ci siamo ritrovati con un sacco di striscioni di compagnie (“Gioventù”, “Gladiators”, ecc.) anche se il gruppo vero e trainante della curva restavamo sempre noi, al che abbiamo deciso di dare un taglio netto e cominciare a ragionare nella logica del gruppo unico anche sotto il profilo visivo: un solo striscione di gruppo, “Boys”, accanto al quale abbiamo iniziato a dar spazio alle sezioni, autonome ma organiche a noi. Più che altro si trattava di una razionalizzazione che prima di allora non c’era stata solo perché la continuità era minore, la gente per qualche motivo smetteva prima, la vita ultras in definitiva era molto più breve, a differenza di adesso dove invece c’è gente che va ben oltre i 30/40 anni.

Ricollegandosi alle domande precedenti, lungo tutti questi anni siete riusciti a mantenere una sorta di egemonia e di unità attorno al vostro gruppo, davvero senza pari in tutta la storia del movimento italiano. Come spiegate questo monopolio? Soprattutto come avete fatto a preservarlo in questo periodo storico in cui il gruppo ultras sembra entrato in una crisi irreversibile e proliferano invece micro-gruppi e cani sciolti?

“Boys” è sempre stato tramandato di generazione in generazione, senza problemi nel passaggio di mano degli striscioni, del materiale e di tutta l’attività fra chi c’era prima e chi è subentrato dopo.

“Potere crociato” è stata un’altra situazione, sintomatica dei differenti punti di vista al nostro interno a seguito del derby del ’94: molti rimasero a casa, altri rimasero al proprio posto, una parte invece, decise di staccarsi e fondare questo gruppo. Risposta certo fisiologica, che effettivamente coincideva con un momento di crisi del gruppo, ma che passò attraverso delle forzature che destabilizzarono fortemente la vita della nostra piazza.

Ci sono poi sempre state le compagnie o i paesi, le sezioni, eccetera che si sono caratterizzate con una pezza o uno striscione per identificarsi meglio in un settore della curva, ma alla fine, il “Marchio Boys” era troppo potente e inevitabilmente inglobava tutti. In ogni caso eri sempre uno dei “Boys”, tutti ci tenevano a essere uno dei nostri. Anche oggi c’è molta gente che non è tesserata nel nostro gruppo, però viene allo stadio con la nostra sciarpa, s’identifica in noi. C’è un’appartenenza ai “Boys” molto alta, anche se poi ognuno sceglie e gestisce come o fine a che punto farsi coinvolgere dalle nostre attività.

Anche il fatto di continuare a portare uno striscione che ha più di quarant’anni è una cosa abbastanza singolare nel panorama ultras di oggi. Continuare a girare con quel vecchio striscione in tela aiuta a identificarsi maggiormente. Questa è una cosa molto importante, poi fortunatamente la gente ha sempre avuto l’intelligenza di mettersi dietro a quelli che già c’erano e questo ci ha aiutato ulteriormente, limando ogni conflittualità a vantaggio della collaborazione e del bene comune.

Un gruppo è spesso sinonimo di identità, un’identità che nel piccolo arriva magari da un comune quartiere, una comitiva, una particolare classe anagrafica o sociale. Sono o sono mai stati i Boys rappresentativi di una specifica identità o invece, da sempre, come nel più classico canone ultras, rappresentano una realtà eterogenea?

A livello provinciale il gruppo era distribuito ovunque, a livello di compagnie cittadine pure. A volte le singole compagnie esprimevano solo poche unità costantemente attive per poi, quando c’erano le partite che contavano, coinvolgere tutti gli altri. Però sia nella città che nei paesi avevamo gente che militava nel gruppo, addirittura nella prima metà degli anni ’80 avevamo la sezione di Milano. Riuscivamo insomma a coinvolgere ragazzi da qualsiasi parte e questo è sempre stato un valore aggiunto, ognuno portava un qualcosa in più fino a quando poi la partecipazione è esplosa con il Parma delle Coppe, allorquando abbiamo avuto tifosi in tutt’Italia se non perfino all’estero, come ancora oggi avviene.

A proposito di termini geografici, al contrario di altre realtà, non avete mai dato peso alle differenze tra parmensi e parmigiani, tra gente della città e di provincia. Forse perché tali differenze non esistono per voi? Perché il seguito della provincia è importante in termini numerici e qualitativi tanto quanto quello della città?

L’apporto della provincia è importantissimo. Cittadino e provinciale si equivalgono, ed è per questo che non c’è differenza fra parmense e parmigiano. Da un punto di vista prettamente linguistico, Parmigiano è il cittadino della città di Parma e il Parmense è quello della provincia, i tifosi del Parma sono comunemente considerati tutti Parmigiani: questo si collega anche al fatto di aver scelto i colori cittadini anziché quelli della squadra.

Onestamente in curva non ci sono mai state dispute o differenziazioni fra Parmigiani o Parmensi. Forse ci ha aiutato in questo anche la conformazione dello stadio, non avendo il settore diviso in più anelli, ma davvero non esiste nessuna distanza, nemmeno fisica, fra tifosi sulla base della loro provenienza. Persino delle tante sezioni quali Fidenza, Collecchio, Langhirano, Fornovo, Busseto, etc. ne son rimaste giusto un paio: anche se la maggior parte dei ragazzi che girano con noi vengono da fuori, prevale come detto il senso di appartenenza ai “Boys” che è motivo di orgoglio per tutti.

La città di Parma, nell’immaginario comune, passa come una città benestante, borghese e distante da logiche anche lontanamente antagoniste o ribellistiche come quelle ultras. Quanto c’è di vero in questo luogo comune?

La città è effettivamente borghese come il luogo comune vuole, anche se le cose poi negli anni sono cambiate. In passato la stampa ci infamava ad ogni occasione, adesso tentiamo di usarla a nostro favore laddove possibile, per veicolare determinati messaggi, alla stessa maniera in cui loro usano noi. Ma anche a livello ultras comunque, dopo la morte di Vincenzo Spagnolo a Genova, c’è stata un’innegabile presa di coscienza da parte del movimento, cercando di rifuggire le vigliaccate, di scontrarsi solo fra consenzienti senza coinvolgere gente estranea e tutta una serie di linee guida sulle quali si è continuato a lavorare dapprima nelle riunioni di “Progetto Ultrà”, e poi nelle manifestazione con le quali, oltre all’auto-critica, si cercava di muovere una critica condivisa verso la mala gestione del mondo del calcio. Questo non voleva certo dire che fossimo “progettati” da Marinelli o comandati da Carlo Balestri, come a qualcuno piaceva dire, semplicemente noi volevamo fare gli ultras e basta, senza spaccare le macchine, senza tirare i sassi, senza attaccare semplici tifosi.

Allo stesso modo, a Parma abbiamo sempre fatto le nostre cose da Ultras, mai infamate e questo alla fine la città te lo riconosce. Come gruppo ci abbiamo messo sempre la faccia, nel bene e nel male. Anche dopo il fallimento, l’unica certezza che c’era a Parma, mentre tutto andava a rotoli, eravamo noi. L’unico punto di riferimento negli ultimi dieci anni, per la gente, siamo stati sempre noi “Boys”. Evidentemente abbiamo fatto anche tante cose belle, come gli innumerevoli eventi di beneficenza di cui poi ti viene dato il merito. E quando poi c’è da mettere sulla bilancia le cose belle, le cose brutte, ognuno trae facilmente le proprie considerazioni. E la conclusione ci riporta a quel sentimento altissimo di appartenenza ai “Boys”, radicatosi proprio in seguito a tutte queste vicende nel corso degli anni, per questo poi la parola dei “Boys” ha assunto il suo peso in città, e tutti l’ascoltano.

Poi dopo la stampa cittadina la soffriamo sempre quando ci fa l’articolo contro, quello è chiaro. Però spesso e volentieri ne usciamo a testa alta da certi attacchi mediatici di bassa lega, anche perché abbiamo guadagnato credito con le nostre azioni, non limitandoci al chiacchiericcio sterile.

Vi meritaste persino il Premio “Sant’Ilario”, la più alta onorificenza riconosciuta ai cittadini che hanno dato lustro alla città, segno che al netto delle critiche l’opinione pubblica sa esservi anche riconoscente.

Quella del Premio “Sant’Ilario” era in realtà una menzione speciale per aver, solo negli ultimi anni, donato un’ambulanza e raccolto diversi fondi per la neonatologia, acquistando un oftalmoscopio e un rianimatore mobile. Ma non è solo per la beneficenza che abbiamo ottenuto credito, ma perché noi ci siamo sempre. Come in tutto quello che è successo in questi anni: abbiamo sempre mantenuto le distanze dai presidenti, abbiamo sempre voluto fare tutto da soli, mai preso un biglietto da Ghirardi, da Leonardi e questo ha peso per la gente. Abbiamo sempre deciso noi solo sulla base dei nostri ideali, non per assecondare i capricci o i voleri di chicchessia. E la gente lo recepisce che non siamo mica servi, che siamo senza padroni, anche se non andiamo in giro a sbandierarlo.

Oltre alle iniziative già menzionate, va ricordato il vostro contributo per la riapertura dell’asilo di Lentigione, dopo l’esondazione dell’Enza, la realizzazione dell’inno “La canzone dei Crusaders” assieme al coro del Teatro Regio, il cui ricavato è andato in beneficenza. Per non parlare di quello che avete dato ad altre cause geograficamente più distanti come Amatrice e tanti altri. Una riflessione: con l’aumento esponenziale della solidarietà, non si innesca un meccanismo perverso quasi di espiazione dei propri peccati? Non si annichilisce così il proprio lato meno accettato socialmente, quello politicamente scorretto assecondando i canoni borghesi di tifo “sano”?

Negli anni la situazione è cambiata. Nei ’90 c’eravamo solo noi, non ce ne fregava un cazzo degli altri. Che a Foggia fossimo in 40 poi a Madrid in 5000, ci interessava solo di noi, non di quanti erano gli altri. Adesso invece il gruppo è tutta la Curva, “Boys” ha una visione d’insieme e non è un caso lo striscione “Curva Nord Matteo Bagnaresi”. Il giro è molto più largo e avendo a che fare con altra gente, ti avvicini di più ad altre problematiche: quella dell’asilo di Lentigione non l’abbiamo pensata noi, semplicemente la moglie di uno dei nostri lavora in quell’asilo ed è stato naturale empatizzare con chi hai vicino. Allargando gli orizzonti si ha a che fare con più entità, con più gente e pian piano inizi a collaborarci in un modo o nell’altro. Inizia quando tu chiedi qualcosa, la gente poi chiede qualcosa a te: è una mano che lava l’altra. Non è che si può andare solo in una direzione: solo loro danno a noi e basta, poi quando tocca a noi ci si defila.

Essere radicati nella città ti porta inevitabilmente a tendere le tue mani verso la città. Come con “Casa Azzurra”: abbiamo ricevuto un’email da loro, c’era la nostra classica Riffa con cui solitamente tiriamo su dei fondi da destinare in beneficienza e abbiamo deciso di farlo in loro favore. Questi qua sono dei volontari, non li aiuta nessuno, sono ultras come noi in un certo senso: fanno le cose per niente, è un atto di fede il loro, solo che loro lo fanno per aiutare gli altri, noi lo facciamo per andare a vedere il pallone. Son più nobili loro, son più ultras loro in questo, fan le cose per niente, hanno davvero mentalità da ultras.

In ciò, fondamentalmente, il nostro impegno passa dall’essere gruppo ad essere tifoseria ad essere comunità. Torni sempre lì, all’inizio: scegliendo i colori gialloblù scegli di rappresentare la città e se la città ha bisogno, gli ultras ci sono.

Quando siamo nati, siamo nati senza un soldo, quindi abbiamo dovuto chiederli anziché darli, poi siamo cresciuti, ci siamo ritrovati “adulti” ed avendo la possibilità di darli, era arrivato per noi il momento di farlo, era giusto farlo. È un processo di maturazione, lo stesso che ti permette di stare ancora in piedi dopo quarant’anni. Se uno guarda a quarant’anni fa, a Parma c’era la DC, c’erano altri partiti, diversi movimenti sottoculturali giovanili, tutta una serie di cose che adesso non ci sono più, i “Boys” sono invece ancora lì al loro posto, l’unica cosa rimasta, e questo qualcosa dovrà pur dire. Ma ovviamente per resistere al mutare del tempo devi avere l’intelligenza e la forza di evolverti senza snaturarti, altrimenti se ti discosti troppo dalla tua natura finisci per estinguerti.

Nell’ottica della comunicazione con il mondo circostante, siete un gruppo molto aperto, con un sito web da anni aggiornatissimo, una fanzine che ha cambiato un po’ formato nel corso del tempo ma resiste, una recente pagina facebook. È un po’ un’antitesi rispetto a un cliché che vuole gli ultras refrattari all’esterno, impenetrabili, poco esplicativi nelle proprie posizioni fino a certi casi limite di esaltazione dell’omertà. C’è chi demonizza queste possibilità e le lascia inesplorate. Voi pur non mancando di esprimere pensieri critici sull’uso sciatto per esempio dei social network, continuate a credere tanto nel “potere della parola”, perché?

La pagina Facebook, nel panorama ultras odierno, è abbastanza ortodossa, nel senso che non c’è una polemica nei confronti di altri gruppi, non c’è la possibilità di far commenti da tastierista. Pubblichiamo delle foto relative alla partita che andremo a giocare, foto storiche per commemorare particolari ricorrenze, ma non viene perseguito altro fine se non quello di comunicare qualcosa, attenti a non eccedere nelle cose sbagliate, di non creare quei circoli viziosi che si possono vedere in tante altre pagine. Serve metaforicamente per curare il nostro orto. Niente di più niente di meno che continuare a far passare il nostro pensiero, far passare quello che siamo ma guardando solo a noi stessi e con il solo fine ultimo di aggregare. I canali di informazione adesso son quelli e di conseguenza bisogna sfruttarli al meglio, allo stesso modo in cui poi sfrutti anche il giornalista di “Gazzetta di Parma”, “Tv Parma” o quel che è, anche se ogni tanto puoi pigliarlo in culo da chi vuole strumentalizzarti.

Allo stesso modo, la strumentalizzazione la puoi subire da chi di questi canali ne fa un uso distorto: il luogo deputato a determinate dispute resta la strada, dove ovviamente non tutto può andare sempre secondo le previsioni, ma le risposte poi le devi dare per strada non su facebook. Inutile, come è capitato a qualcuno che per oltre un anno ci ha tirato indirettamente in ballo, aizzare polemiche stucchevoli e continuare a scrivere su facebook. Il nostro “No facebook” significa appunto questo: non una chiusura totale al mezzo comunicativo in sé, ma una censura al suo uso esasperato. Militanza e presenza insomma, non continue chiacchiere virtuali.

La differenza è molto sottile: c’è chi dice “No Facebook” come pensiero collettivo e poi dopo tutti gli esponenti del gruppo personalmente lo usano, magari col rischio di far passare un’idea sbagliata, di far passare pensieri propri come quelli di tutti. E questo è molto peggio che esserci, quindi meglio marcare con la propria presenza ufficiale anche quegli spazi, ma promuovendone un uso consapevole e sobrio, limitandosi alle sole foto, alla sola comunicazione essenziale senza dare adito a equivoci o polemiche inutili. Soprattutto via web.

Slogan come questi sono delle sintesi verso l’esterno delle decisioni che maturiamo. Per rendere l’idea, anche con il “No alla tessera”, non volevamo certo dire che la gente doveva starsene a casa. Voleva dire “andare al Parma” senza tessera e provare a farlo anche in trasferta, senza fermarsi allo slogan. Certo la parte di gruppo meno attiva o militante si fermava lì, allo slogan e quindi a casa sul divano, mentre l’altra metà del gruppo andava allo stadio rischiando di tutto. All’atto pratico siamo stati quelli che sono entrati più volte senza tessera: è un vanto esagerato questo. L’abbiamo capito in venti, ma non cambia niente. Il discorso di fondo resta quello: non fermiamoci a “No al calcio moderno”, non fermiamoci agli slogan, non facciamo uno striscione e poi null’altro di pratico. A quel punto è preferibile non far nessuno striscione però fare cose attive, anche perché sono vent’anni che facciamo striscioni ma abbiamo visto che in certe situazioni serve ben altro per spostare gli equilibri.

Ma al di là della vostra idea di uso dei mass media, da quelli classici a quelli moderni, cosa pensate invece dell’informazione cosiddetta “mainstream”, sia locale che nazionale?

Ogni qual volta si parli di ultras, c’è sicuramente una strumentalizzazione esagerata che andrebbe senza meno equilibrata. Basta vedere il caso degli adesivi di Anna Frank nella curva laziale.

A Parma, in virtù dei rapporti di trasparenza coltivati con un paio di giornalisti, abbiamo la fortuna che ogni volta che i “Boys” escono con un comunicato questo viene pubblicato. Con i media nazionali in realtà non abbiamo molto a che fare.

Discorso specifico meriterebbe la “Gazzetta di Parma” che rappresenta il monopolio dell’informazione in città: hanno un canale televisivo, hanno inglobato un’altra televisione concorrente con cui hanno fatto una fusione e che presto porterà a un canale unico; il giornale invece lo conoscono tutti, è in tutti i bar, tutti lo leggono, tutti sanno quello che c’è scritto. Qual è il problema? È che nelle redazioni sportive, da un anno a questa parte, hanno spostato giornalisti che prima erano alla musica, agli eventi, ai concerti: su di noi non sanno niente più del cittadino comune che poi pretendono di informare, dando ovviamente sponda e seguito a tutti i pregiudizi che conosciamo da quarant’anni.

L’altra questione sono i direttori: il caso succitato degli adesivi di Anna Frank è stato strumentalizzato al massimo anche qui, da parte del direttore della “Gazzetta di Parma”, che è uno che viene da Milano e che non ha quindi alcuna conoscenza del territorio, delle sue realtà e che men che meno le rispetta, visto come ha cavalcato l’onda mediatica. Siamo stati trascinati dentro una polemica non nostra, una polemica diventata nazionale, in cui la nostra sensazione, rimarcata con uno striscione esposto fuori dallo stadio, era che si stavano sovraccaricando i significati quando, in quel preciso momento storico, c’era per esempio un governo traballante che rischiava di cadere da un momento all’altro, retto com’era a colpi di voti di fiducia. Invece, come spesso e volentieri accade, il problema più urgente della stabilità politica di una intera nazione è finito in subordine a una decina di adesivi attaccati a un vetro. Gli ultras insomma quale arma di distrazione di massa. Non so se rendiamo l’idea, ma per almeno tre giorni siamo stati protagonisti sulla prima pagina della “Gazzetta di Parma” pur non essendo nemmeno protagonisti diretti di quel fatto e in termini di proporzionalità e gravità degli eventi, la cosa è a dir poco esagerata.

Restando in tema di rapporti, pur non essendo un paesino, Parma non è di certo nemmeno una metropoli e può essere dunque difficile la convivenza con la locale questura. Di fatto com’è la situazione?

Se parliamo di scontri per strada, normalmente e sistematicamente paghiamo pesantemente ogni eccesso di libertà che ci prendiamo. Una torciata fatta con un minimo di furbizia però (accensione tra le gambe della gente o sotto i bandieroni, ecc.), può anche tenerti al riparo da diffide certamente inutili, visto che parliamo di pure situazioni coreografiche senza alcun rischio per l’ordine pubblico.

In linea di massima, certo a modo loro, con le loro idee, nelle loro situazioni, comunque il dialogo lo cercano e cercano appunto di abbassare i toni. Senz’altro non possiamo mica dire che le diffide noi le prendiamo per niente. Non è come a Roma, come a Torino, dove c’è uno scontro frontale e la giustizia viene usata quasi per rappresaglia. Ma abbiamo attraversato anche noi stagioni difficili, una volta per esempio picchiammo degli agenti della Digos, dopo di che per un anno ci fecero patire di tutto. La situazione che si venne a creare però non stava bene neanche a loro. L’astio continuo non stava bene neanche a loro.

Da noi inoltre, da anni il funzionario della Digos è sempre quello, lavora a Parma da vent’anni, sia nella politica di piazza che allo stadio, quindi conosce tutti e sa come prendere tanto le piazze quanto le curve.

Veniamo ai rapporti con le società: sia con Tanzi che poi con Ghirardi, dall’esterno si è avuta l’impressione che un periodo di relativi successi vi avesse portato in certo qual modo ad abbassare la guardia e in entrambi i casi l’avete pagata cara. È del tutto erronea questa valutazione? Oppure è un’esperienza da cui avete fatto tesoro per questo nuovo sodalizio sportivo? Come sono ora i rapporti? Come sono stati nel corso di questi anni?

È una storia molto particolare. Negli anni Ottanta ci barcamenavamo nelle categorie inferiori, poi negli anni novanta ci siamo ritrovati improvvisamente in Serie A ed è stata difficile da gestire. Eravamo una compagnia di poche decine di persone, con tutte le altre compagnie intorno e con il Parma Calcio che, in quel momento, era giustamente intenzionato a portare quanti più tifosi possibili. Da lì sono arrivati gli aiuti, i biglietti, i treni speciali. Siamo diventati fin troppo intimi al punto che poi è venuta meno l’indipendenza delle decisioni. Infatti la crisi interna del ’94 è venuta da lì: c’era chi voleva contestare in semifinale di coppa e chi evidentemente per altri ideali non lo voleva. A dimostrazione di questo conflitto di interessi, dopo di allora uno dei nostri andò a lavorare nel Parma ed è stato da quel momento che abbiamo deciso di azzerare totalmente i rapporti. Siamo da lì in poi rimasti sempre nella nostra dimensione e quando ci siamo ritrovati con molti soldi per esempio, nessuno ne ha mai intascato un centesimo, anzi abbiamo deciso di regalare un’ambulanza alla pubblica assistenza locale.

Da quell’anno zero, abbiamo preso a fare le nostre cose da soli, nella massima indipendenza, non volevamo nemmeno parlare con la società. Di conseguenza la distanza porta con sé il rischio di non accorgersi o sottovalutare quello che accade in sede societaria. Quando siamo ripartiti in Serie D con una dirigenza di gente tutta di Parma invece, fondamentalmente è diventato come parlare con il vicino di casa. A differenza di prima quando, quelle persone con le quali parlavi, intrattenevi rapporti o chiedevi spiegazioni, non erano nemmeno le stesse persone che pagavano ma dei loro luogotenenti.

Le ultime vicissitudini ci hanno ovviamente scottato e alla minima cosa scattiamo sull’attenti, ma nemmeno più di tanto a dir la verità: spesso ci fidiamo, ma perché siamo in buonafede e diamo il beneficio della buonafede anche agli altri, perché pensiamo che un dirigente che è di Parma possa avere un minimo di correttezza in più verso di noi, anche se poi magari non è così. La comunicazione c’è sempre, ma sempre con la reciproca indipendenza. Non conosciamo invece i giocatori, non andiamo a cena con loro: le frequentazioni, le ultime cene con i giocatori le abbiamo fatte nel ’93. Adesso se c’è da comunicare con una persona, il gruppo comunica con Lucarelli, prende il telefono, chiama e lui è sempre disponibile, però sempre nel rispetto dei reciproci ruoli.

Dunque gli ultimi rapporti con i giocatori si interrompono sempre dopo quel maledetto derby del 1994. Dopo di allora, decideste di non fare più cori ai giocatori, di anteporre a tutti la maglia. Prima di allora però ci fu Barbuti, una delle vostre bandiere e attualmente avete già detto del buon rapporto con Alessandro Lucarelli. Chi altri trova un posto particolare nella vostra storia?

Quando il Parma di Tanzi regalò il derby alla Reggiana, quelli che erano andati in campo a giocare, erano considerate le nostre bandiere, erano quelli che ci avevano portato dalla B a vincere tutto, per cui lo scotto è stato ancora più pesante, c’ha spaccato il gruppo e proprio per questo abbiamo deciso di non fare più cori per i giocatori. A distanza di anni, quella ferita è riemersa quando si pensò ad una maglia celebrativa per festeggiare il record di presenze di Lucarelli con il Parma: molta gente, anche fra chi nel ’94 non c’era ancora, decise di non associare il simbolo dei “Boys” al volto di un singolo giocatore, nemmeno nel caso di Lucarelli. In virtù di quell’esperienza, a vent’anni di distanza dal fatto scatenante, possiamo sostenere con sicurezza che è stata una scelta giusta soprattutto per evitare di omaggiare con cori i vari Ciciretti, i Ceravolo del caso, gente che non lascia traccia alcuna sul campo e nella storia e che, secondo l’uso passato, o come avviene in talune piazze, si sarebbe guadagnata cori sulla base del niente.

Oltre Barbuti, gli altri punti fermi nella nostra storia sono Melli e Benarrivo. Lo stesso Benarrivo si meritò lo striscione “Ultima bandiera” per essere rimasto tanti anni da noi. Non pensavamo ci sarebbe stato nessun altro giocatore capace di restare così tanto, poi siamo stati smentiti da Lucarelli e probabilmente sarà davvero l’ultimo.

Vista dalla nostra ottica, il sogno sarebbe vedere gente come Totti, Del Piero, Maldini: giocatori non solo di qualità, ma capaci di restare per tutta la vita nella stessa squadra. Se poi fossero di Parma sarebbe ancora più bello. In tal senso, allo spareggio di Bologna, mentre noi eravamo in Curva era rinfrancante vedere in campo uno come Dessena, una ragazzo di Parma come noi, della nostra stessa età, che combatteva in campo esattamente come noi in curva. Non abbiamo fatto in tempo a immaginarlo altri dieci anni con la nostra maglia, che ci ha disilluso con il suo comportamento immaturo a seguito della contestazione di Empoli nel 2007.

L’unica bandiera di Parma nel Parma resta Alessandro Melli: ha segnato durante la promozione dalla C alla B, ha segnato dalla B alla A, ha segnato in Coppa Italia, ha segnato a “Wembley”. Ne poteva raccogliere l’eredità Cerri, anche lui di Parma, ma poi ha deciso di andare a Perugia: purtroppo c’è stato il fallimento e lui ha preso altre strade. Certo ci sarebbe piaciuto che oltre a Lucarelli, anche qualche altro ragazzo di Parma avesse preso a cuore le nostre sorti scendendo in Serie D e accompagnando la rinascita dal fallimento. Purtroppo però è anche lo stesso scenario calcistico a esser cambiato e rendere difficile il ripetersi di belle storie come quella di Melli.

[FONTE: Sport People]