Essere Ultras, ultimi ribelli al calcio moderno PDF Stampa E-mail
Sabato 14 Febbraio 2015 11:03

«Essere ultras significa essere diversi da tutti gli altri. Essere altro, rispetto a un seggiolino numerato». Avvocato penalista, esperto in legislazione antiviolenza, Lorenzo Contucci il mondo delle curve lo conosce bene. Dopo una lunga militanza nella Sud romanista, adesso gli ultras li difende in tribunale. È stato il primo in Italia. «Ho iniziato negli anni Novanta – ricorda -. All’epoca nessun legale accettava di presentare ricorsi contro le diffide. E così per me è diventata una questione di principio».

 

 

Tra i suoi clienti ci sono tanti ragazzi accusati di reati da stadio. C’è uno dei tifosi romanisti che nel 2004 entrò in campo durante il derby della Capitale, costringendo i giocatori a sospendere la partita. E ci sono quindici ultras arrestati nel 2007, accusati di aver assaltato alcune caserme della polizia dopo la morte del laziale Gabriele Sandri. Dieci di loro sono stati assolti in primo grado. «E gli altri cinque – confida Contucci – saranno assolti in appello». A marzo, invece, inizierà il processo per Gennaro De Tommaso, Genny ’a Carogna. Gli italiani lo hanno conosciuto lo scorso maggio, durante la finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. A cavalcioni sulla cancellata dello stadio Olimpico, è stato lui a trattare con calciatori e forze dell’ordine per far giocare la partita (poco prima era stato ferito a morte il tifoso napoletano Ciro Esposito). Arrestato qualche tempo dopo, anche lui si è rivolto a Contucci. «In tribunale – spiega l’avvocato – sono sicuro che riuscirò a dimostrare la sua innocenza».

Eppure raccontare gli ultras non è facile. Chi si aspetta un identikit rischia di rimanere deluso. «La curva è uno dei pochi posti dove le differenze sociali ed economiche non esistono» spiega Contucci. «In tribuna entra chi ha i soldi per comprare il biglietto. Ma in curva ci si va per scelta. Non è una questione economica, semmai ideologica. Fianco a fianco tifano avvocati e operatori ecologici, disoccupati e medici». Cori e striscioni, ma non solo. Spesso la curva nasconde una vera e propria comunità, con rituali e codici di comportamento. Regole non scritte, sconosciute al di fuori degli stadi. «La mentalità ultras si basa su concetti come la lealtà, la fedeltà, il disinteresse. Valori che fuori dallo stadio molti considerano ridicoli, ma che secondo me insegnano a vivere».

La complessità del fenomeno è giustificata dal suo radicamento. I primi ultras arrivano nelle curve italiane negli anni Sessanta, mezzo secolo fa. «Si parte a Genova e Milano, poi via via nel resto d’Italia». Gli anni Ottanta e Novanta rappresentano la consacrazione del movimento. «Per colore e violenza si ritagliano subito un ruolo da protagonisti i gruppi organizzati di Torino, Milano, Verona, Roma, Bergamo…». Colore e violenza, dice Contucci. Non è il caso di nascondersi: anche lo scontro fa parte della realtà ultras. Eppure, curiosamente, il fenomeno prende piede negli stadi italiani proprio negli anni in cui più alta è l’affluenza di pubblico. Sono le stagioni in cui la serie A è il campionato più seguito del mondo. Sugli spalti non c’è mai uno spazio vuoto. «Violenza uguale meno spettatori? Personalmente l’ho sempre considerato un falso storico» sorride l’avvocato.

E sì che quelli sono anni di violenza vera. Scontri, incidenti, treni dati alle fiamme. In vent’anni si contano una decina di morti. Nel 1994, al termine di una trasferta a Brescia, i tifosi della Roma arrivano ad accoltellare il vicequestore. Una storia incredibile a ripensarci oggi. Difficile trovare giustificazioni. «Eppure la violenza negli stadi esisteva anche prima dell’arrivo degli ultras» spiega disarmante Contucci. «Anche prima degli anni Ottanta c’erano invasioni di campo e incidenti. Solo che le notizie venivano relegate a un trafiletto di cronaca. Mentre adesso sono l’apertura di tutti i telegiornali». Insomma, gli scontri allo stadio ci sono sempre stati. «È solo cambiata solo la nostra percezione della violenza».

Restano innegabili i legami con la politica, almeno fino al recente passato. Per anni le curve sono state raccontate come covi di estremisti, in alcuni casi anche a buon motivo. «La contaminazione del fenomeno ultras con la politica nasce sin dall’inizio, dagli anni Settanta». Un passaggio per certi versi inevitabile. «Chi va in curva è una persona come tutte le altre, non smette di usare il cervello quando varca il cancello dello stadio». Eppure, ricorda Contucci, la maggior parte delle tifoserie italiane ormai non è più schierata. Destra e sinistra non hanno più troppo valore. «Per trovare simboli politici esposti allo stadio bisogna ripescare immagini d’archivio di una decina d’anni fa». Ma la politica non è l’unica influenza esterna. Nella storia del tifo ha un ruolo particolare la contaminazione musicale, soprattutto in Inghilterra. «Sul finire degli anni Settanta – spiega Contucci – guardando gli spettatori delle curve inglesi che saltano impazziti dopo un gol è impossibile non cogliere l’influsso del nascente movimento punk». Da noi l’aspetto musicale è stato meno incisivo, forse. «Ma in quegli anni anche negli stadi italiani sono frequenti i gruppi “Mods”». Firm nostrane, dai più o meno evidenti legami con l’omonima subcultura giovanile britannica. Venti anni fa nelle curve italiane si ascoltavano gli Who, ma si leggeva anche molto. «C’è una ricca bibliografia legata al fenomeno, prevalentemente inglese» racconta Contucci. Non è un mistero che gli ultras di casa nostra hanno a lungo assorbito le mode d’Oltremanica, spesso con decenni di ritardo.

Da quasi quindici anni Lorenzo Contucci gestisce un sito, asromaultras.org. Oltre 15mila pagine, una montagna di fotografie e documenti. Una memoria storica della Roma e dei suoi tifosi unica al mondo. Ma la pagina web è anche una piattaforma importante per dare vita a una serie di battaglie, prima tra tutte quella contro la tessera del tifoso. Il risultato? Oltre dodici milioni e mezzo di visitatori unici e un grande orgoglio. «Avrei potuto campare solo con quel sito – spiega – Ma non ho mai voluto nemmeno un piccolo banner pubblicitario. Il mio è un impegno completamente gratuito». Il disinteresse, si diceva prima, e la coerenza. La mentalità ultras è anche questo. E poi c’è l’insofferenza, quella incessante voglia di ribellione.

Il nemico principale ormai è il calcio moderno. Una lotta impari. «Il calcio ha iniziato ad aprirsi a nuovi mercati – dice Contucci – Ormai è più importante avere tifosi in estremo oriente che nella propria città. Ma questo sistema sta distruggendo l’aspetto identitario, l’essenza stessa del calcio». Intanto l’avvento delle pay-tv e dei grandi sponsor ha finito per rappresentare l’inizio della fine. «Il calcio romantico resta quello degli anni Settanta – ricorda l’avvocato con nostalgia -. Quello delle maglie senza pubblicità, con i colori tradizionali del club, senza i nomi dei giocatori sulla schiena. Gli ultras tifano la maglia, del calciatore non gli frega niente…». Ma chi si oppone diventa un ostacolo. «E così – racconta – con il calcio moderno è arrivata la repressione». Nel 1989 i tifosi italiani scoprono il Daspo, il divieto di andare allo stadio. Una misura che in Inghilterra esiste già, «solo che lì a comminare le pena è un giudice, da noi è la polizia». Il resto segue a ruota. Contucci elenca le misure introdotte negli anni per arginare la violenza negli stadi: biglietti nominativi, tornelli, tessera del tifoso, divieto di trasferte…

«Ormai il movimento ultras è destinato a scomparire», ammette l’avvocato. «Se sopravviverà, sarà fuori dagli stadi. Esattamente come è successo in Inghilterra, dove l’hooliganismo esiste ancora. Solo che non se ne parla». E il tanto decantato modello inglese? «Gli stadi sono più ordinati, certo. Ma solo perché hanno aumentato i prezzi dei biglietti. Mettendo una curva a 50 sterline forse riporti le famiglie allo stadio, ma non fidelizzi i tifosi. Con questi prezzi a vedere la partita si può andare una volta l’anno. Così gli impianti sono sempre pieni, ma gli spettatori non sono mai gli stessi. È quello che stanno provando a fare anche da noi».

[FONTE: Linkiesta]