UltraStrumentalizzati, l’idea distorta del tifoso in 4 mosse PDF Stampa E-mail
Giovedì 08 Novembre 2012 12:36

Il 27 febbraio del 2011 Davide Tenerani, carrarese di 24 anni, viene  fermato insieme ad altre tre persone per l’omicidio di Jonathan  Esposito, spezzino. I quattro di Carrara arrivano in macchina, importunano una donna, Esposito reagisce e viene accoltellato. Nessuno  dei cinque è legato a gruppi ultrà delle proprie città. Il fattoavviene a 7 km dallo stadio, dove quel giorno si era giocata Spezia-Pergocrema 2-2. La Carrarese quell’anno non milita nello stesso campionato dello  Spezia.  

 

«Jonathan Esposito è morto accoltellato davanti a un locale di La  Spezia, durante una rissa tra tifosi rivali dello Spezia e della  Carrarese, innescata dalle avances a una ragazza e da qualche bicchiere  di troppo. [...] Fra spezzini e carraresi esiste da sempre una rivalità,  che vede nel calcio momenti di forte tensione».

 

Il calcio e il tifo in questo episodio non c’entrano nulla; eppure,  che siano UltraS o ultrà o tifosi o Boys o Irriducibili o suore in gita  all’Olimpico, le generalizzazioni mediatiche portano i sostenitori di  una squadra a diventare degli ultras e poi gli ultras a essere  responsabili di qualsiasi efferato atto. Questo, secondo una ricerca del  dr. Alberto Testa intitolata The Italian media and the UltraS, avviene  per due ragioni. «Un eccesso di copertura mediatica è una linea guida  nel complicato rapporto tra media e UltraS; la densa copertura è una  disfunzione che può diventare pericolosa. L’eccesso si focalizza  soprattutto, ma non esclusivamente, sulle azioni negative, vere o  percepite. E questo sembra radicato in due fattori; il primo è  economico, semplicemente il bisogno di vendere notizie. L’altro è  specifico dell’identità UltraS, vale a dire la loro logica e  caratteristica come movimento di opposizione».
Gli UltraS – che nella distinzione di Testa sono i tifosi di  orientamento neo-fascista – non sono ultrà. Nel rapporto UltraS-media  c’è una conca, tra la necessità di fare notizia e la volontà di essere  rappresentati al di fuori del sistema, nella quale lo stereotipo  prolifera quasi naturalmente. Per quanto riguarda invece gli ultrà, che  di politico e antisistemico spesso non hanno nulla, le responsabilità  degli organi d’informazione sono più gravi: gli ultrà vengono  mediaticamente trascinati fuori dal loro contesto, lo stadio, e  ricoperti di usi e costumi che non sono loro propri. L’essenza  territoriale dei loro gruppi, che dal punto di vista sociologico  rappresenta una complessità ben più articolata dei trafiletti di  giornale con cui viene iconizzata, viene sistematicamente bypassata,  traslocata e rinchiusa in un altro territorio: la violenza.
Tuttavia non è così semplice addossare le colpe della generalizzazione  ai media: il percorso che trasforma la notizia in errore stereotipato  avviene per gradi.

Ciò che appartiene allo stadio alla curva e alle emozioni del tifo,  ciò che biologicamente dovrebbe vivere solo nei 90 minuti della partita,  innanzitutto viene adottato da chi sugli spalti non ci mette nemmeno  piede. Così a gennaio dello scorso anno lo juventino Marco Borriello  viene criticato con uno striscione dalla curva bianconera per essere un  “mercenario”. E Massimo Mauro commenta: «Non capisco perché fenomeni  extracalcistici vengano rappresentati dagli striscioni, in questo caso,  ingiusti nei confronti di un professionista». Il pezzo di tela e il suo  messaggio, posizionati prima della partita e tolti dopo, non avrebbero  altro luogo che la curva dell’Olimpico di Torino. La polemica però  rimbalza dal commentatore Sky e si amplifica in rete, trovando alloggi  non suoi, sedi che non ha mai voluto.
La velocità del web viene obbligata continuamente a espandere il  significato dei gesti e dei cori che non hanno nessuna intenzione di  estendersi al di fuori del campo da gioco. La «copertura» mediatica  diventa forzatura, genera polemiche attorno a episodi, come la poca  eleganza della curva veronese nei confronti di Morosini – il vilipendio  dei morti vale anche per le vittime dell’Heysel? -, e le prolunga per  settimane.
Portare fuori dalle mura di uno stadio striscioni, cori, gesti non è più  così difficile, ma rimane lo scalino più importante della scala che  porta all’errore. Per questo, quando i tifosi si muovono e portano  spontaneamente i loro messaggi fuori dagli impianti, si concede un  grosso favore a chi abitualmente li critica. Durante il derby Roma-Lazio  del 2004 due capi ultrà delle tifoserie si recò in campo per avvertire i  capitani della morte (falsa) di un bambino fuori dall’Olimpico e la  partita fu sospesa. Si ricordano ancora i titoli di Repubblica, Corriere  e Gazzetta che il giorno stesso sui loro siti, e il giorno dopo nelle  edicole, parlarono di “complotto”. Il Messaggero addirittura si spinse  in un’analisi: «Ultrà come mafiosi». Il gesto dei capi ultrà certo fu  frainteso, ma questo non è giornalisticamente accettabile: il  fraintendimento è una mancanza di verifica ed è figlio della  supposizione. Le sentenze del 2007 non solo confermarono l’inesistenza  di un complotto, ma diedero inizio alla ruota di scarcerazioni e  assoluzioni per chi fu arrestato negli scontri con la polizia fuori  dallo stadio.
Quando lo scorso 21 settembre alcuni ultrà rossoneri si recarono dal  patròn del Milan e presidente del Consiglio, Berlusconi, per confermare  il proprio sostegno alla squadra e per discutere su come “uscire dalla  crisi”, l’Amaca di Michele Serra recitava: «Le tifoserie ultras sono  entrate a fare pare quasi istituzionalmente della gestione del calcio  italiano». Eccessivo e scorretto, perché “tifoserie ultras” comprende  tutti e nessuno e in ogni caso nessun ultrà ha ambizioni di gestione del  calcio italiano. Ma tanto basta a poggiare il calco delle intenzioni  sul nome “Ultras”.

Al di là degli episodi più gravi e importanti, quelli che giornalisti  scrupolosi si affannano a raccogliere in video di 5 minuti su Youtube,  la connotazione negativa degli ultrà avviene gradualmente.
Serra in particolare è un abitudinario di questo modus operandi: chi  legge i suoi pezzi incontra frequentemente la parola “ultras” associata a  contesti completamente diversi.
« [...] di fronte agli ultras (co-protagonisti, per altro, di tutti o  quasi gli episodi di violenza politica degli ultimi anni, dalle  aggressioni fasciste e omofobe ai saccheggi e agli incendi della  primavera scorsa a Roma) [...] Gli ultras non sono più un problema di  ordine pubblico, sono un problema di democrazia». Nello stesso articolo  del 25 aprile scorso si legge anche: «[...] l’incredibile sequestro di  uno stadio intero ad opera di una cosca di ultras del Genoa». Quattro  mesi dopo, parlando delle proteste di Taranto, la rubrica termina invece  così: «La vita adulta non funziona così. Non è facile spiegarlo agli  ultras, non solo di calcio».
Lavorare ai fianchi l’opinione pubblica è il secondo passo del percorso  verso la generalizzazione: si associa la parola “ultras” ad altri  contesti per connotarla negativamente. Già abbiamo detto che non tutti  gli ultrà sono politicizzati (perciò non ha senso il calderone del primo  stralcio); inoltre i tifosi non si raggruppano per “cosche” né hanno a  che fare con le proteste tarantine. Inserirli dove non c’entrano diventa  pian piano una prassi.
Nel maggio 2010 l’Italia viene bocciata da Platini e un articolo di  Franco Ordine dal titolo “Alzi la mano chi si meraviglia” argomenta così  la decisione: «Un contributo negativo alla causa è arrivato anche dalla  questione ultrà».
Su RepubblicaRoma.it del 2 settembre 2010 un ultrà rimane ferito da  un’esplosione perché «forse preparava una bomba carta per lo stadio». Il  2 settembre 2010 fu però un giovedì e in programma all’Olimpico non  c’erano partite di calcio: in che modo una bomba carta va preparata  necessariamente per lo stadio?
L’associazione violenza-ultras diventa categorica in occasioni come la  manifestazione degli indignados italiani il 15 ottobre 2011. I giornali  del giorno dopo scrissero “ultras” in ogni occhiello con cui  identificavano i protagonisti degli scontri; ma i fermati o condannati  Valerio Pascali, Giuseppe Ciurleo, Lorenzo Giuliani, Giovanni Caputi,  Leonardo Vecchiolla non avevano e non hanno nulla a che fare con le  tifoserie organizzate.
Lo scorso 22 ottobre un litigio personale tra tre tifosi del Venezia  finisce con un cranio sfondato, forse da una spranga, ma il Messaggero  titola così: «Martellate tra ultras del Venezia: 28enne arrestato con  l’accusa di tentato omicidio» e racconta di uno «scontro avvenuto ieri  tra le due fazioni della Curva sud e del Gate 22: feriti due giovani di  24 e 21 anni, uno è in gravi condizioni».
Altro esempio è Ilvo Diamanti, un affezionato dei sondaggi Demos-Coop  per Repubblica. «Le stesse tifoserie, al di là delle posizioni estreme  degli ultrà, mostrano orientamenti politici precisi. Sinistra: i tifosi  della Fiorentina. Centrosinistra: la bandiera del Napoli. Centro: quella  bianconera. Centrodestra: le squadre milanesi». Da Repubblica e  Diamanti a Dazebaonews.it e Ramona Giattino, che si occupa della festa  in piazza dei tifosi laziali per i 112 anni del club: «Sono i cosiddetti  Ultras, una delle lobby più potenti e influenti della classe media  italiana, i “padroni dello stadio”». Semplificazioni di questo tipo  hanno progressivamente indotto a pensare che gli ultrà siano un blocco  compatto di pietra.

Ma la fame di vendere notizie è inesauribile. E avere di fronte un  sampietrino chiamato “ultras” e averlo già macchiato di negative  accezioni, porta naturalmente al punto dopo: ingigantire i fatti è il  gradino successivo. O il gradone.

Pescara-Lazio di quest’anno è stata preceduta dalla diffusione di una  foto di un manifesto: recava il disegno di un cacciatore che spara a  un’aquila biancoceleste. Apparsa su un sito e rilanciata da alcuni  quotidiani, ha scatenato la voce che, spargendosi in rete, ha dato  seguito a immediate reazioni: chi accusava gli ultrà pescaresi di  antisportività e chi intimava loro di togliere l’oggetto dalle strade.  «Ritornate nella fogna», «gli ideatori… sarebbero da denunciare per  istigazione a delinquere», «vittoria a tavolino come con la Roma». Il  manifesto però nelle strade c’è stato nel 1992 e quella era una foto  vecchia di vent’anni, tirata fuori per l’occasione.
Nell’ottobre del 2010 alcuni teppisti «s’introducono nello stadio e  devastano il San Paolo». I siti d’informazione partenopea riportano: «Si  indaga quindi nel tifo violento. Alcuni gruppi organizzati, ostili alla  società per la tessera del tifoso». Ma il giorno dopo su  calcionapoli24.it si leggono ulteriori particolari dell’  “organizzazione” dei teppisti: «Sono entrati sul campo del San Paolo e  hanno giocato una partitella tra amici con il super santos. I ragazzini  hanno ripreso l’irruzione con il telefonino».
Se di fatti non ce ne sono, spesso si scrive in previsione di qualcosa  che “potrebbe accadere”. Così, se i tifosi del Partizan di Belgrado  arrivano a Milano per una sfida di Europa League contro l’Inter, la  Gazzetta dello sport si preoccupa di lanciare l’allarme, senza però  «fare del terrorismo mediatico».
L’evoluzione dello stereotipo arriva a imporsi su fatti che non sono mai  accaduti. In questa climax non cronologica, Roma-Napoli del 2009 è  l’apice. Dal capoluogo campano parte un treno assaltato dagli ultrà  partenopei: «Un vero e proprio assalto al treno, in mattinata, alla  stazione di Napoli. Spintoni, tensioni, urla: così per oltre tre ore  l’Intercity Plus 520, diretto a Torino, è rimasto sotto assedio di oltre  mille tifosi azzurri che volevano raggiungere la capitale per la  partita con la Roma, anche senza biglietto. I tafferugli hanno raggiunto  il culmine quando un folto gruppo di ultras, privo del biglietto di  viaggio, ha forzato i cordoni di controllo predisposti dalle Ferrovie  dello Stato in collaborazione con le Forze dell’ordine ed è salito con  la forza sul treno, azione che ha provocato la contusione di quattro  dipendenti delle FS. Il tutto davanti ai passeggeri allibiti. I  passeggeri dell’Intercity, quando si sono resi conto della situazione,  non hanno avuto altra scelta che scendere dal treno». Ma le cose non  andarono così. Il racconto, in Italia riportato solo da Oliviero Beha,  di un giornalista sportivo tedesco, Reinhard Krennhuber, smentì  l’accanimento dei media italiani sui tifosi azzurri. «Innanzitutto è  scorretto dire che i tifosi del Napoli aggredirono e spinsero 300  passeggeri fuori dal treno. Non abbiamo nemmeno visto alcun controllore  attaccato. Il treno doveva partire alle 9.24, ma dopo le 11.00 i  responsabili di Trenitalia sono saliti a bordo e ci hanno detto di  prendere un altro treno. Siamo partiti alle 12.30 in un treno  completamente pieno. Quando siamo arrivati la partita era già iniziata  da 52 minuti; una vergogna aver pagato il biglietto sia del treno che  dello stadio. I tifosi frustrati hanno iniziato a demolire i bagni, ma  non sono sicuro che i danni raggiungessero 500mila euro. Mi sembrano  strane anche le notizie di gas lacrimogeni a Termini».

È così si arriva all’errore. La differenza tra la notizia  dell’intercity Napoli-Roma e quella dell’omicidio di Jonathan Esposito è  il meccanismo automatico che, nella seconda, porta a identificare  l’ultrà con la violenza.
La scorsa domenica di campionato, “complici” un gemellaggio e l’accordo  tra le questure, ultrà e tifosi sampdoriani sono entrati allo stadio  Tardini senza tessera del tifoso. La partita è terminata 2-1 per i  padroni di casa e non ci sono stati scontri, violenze e neppure beghe.  Il piano mediatico da decenni macchia e isola il tifo, valorizza i  DASPO, le pene esemplari e le gogne; così risulta naturale eliminare dai  giornali qualsiasi riferimento di non violenza ultrà e che, tra tutte  le testate nazionali, l’unica a parlare della domenica di Parma sia  stato il Corriere dello Sport.

[FONTE: Blog.Il Serale]

Qualche giorno fa ci eravamo già occupati di questa interessante iniziativa editoriale, per vedere l'articolo completo che il settimanale "Il Serale" ha dedicato all'argomento stadio e tifo CLICCA QUI.