L'insegnamento di Genova: meglio Ultras che Italiani (di Carlo Melina) PDF Stampa E-mail
Lunedì 23 Aprile 2012 22:10

Il calcio è malato, anzi, “una merda”. E la tessera del tifoso non basta: gli ultras vanno cacciati in galera. Questi  i commenti vomitati sulla stampa e sul web da opinionisti e aspiranti tali, dopo che, durante la partita Genoa – Siena, alcuni tifosi del Grifone, stanchi delle prestazioni irritanti della loro squadra, hanno interrotto l’incontro sul risultato di 0 – 4. Incontro che, dopo alcuni momenti di concitazione, è ripreso regolarmente. Barbari, incivili, cancro e rovina di uno spettacolo che dovrebbe essere per famiglie. Questi sarebbero gli ultras genoani, secondo i tutori dell’ordine e l’inflaccidita borghesia intellettuale che primeggia quanto a postille, distinguo (fra ciò che è calcio e ciò che non lo sarebbe) e anatemi, omettendo di ricordare che, prima di tutto, i tifosi del Genoa sono persone normali, che la settimana lavorano, che nei weekend, o quando i palinsesti delle pay tv lo comandano, spendono soldi per sostenere il loro blasone. Persone, non dimentichiamolo, applaudite da mezza Italia solo qualche mese fa, quando, in seguito all’alluvione di Genova, che ha causato danni e morti, non certo per le speculazioni edilizie e l’incuranza di qualche ultras, hanno spalato il fango dalle strade e raccolto fondi per la ricostruzione. Come loro, tanti altri gruppi di tifosi organizzati, che da tutta la penisola hanno partecipato a queste ed altre iniziative di solidarietà.

Criminali selvaggi, feccia da eliminare, punire e segregare, senza che sia permesso loro di compiere, dentro agli stadi, gesta per cui, lungo la pubblica via, un normale cittadino sarebbe arrestato. Questi sarebbero gli ultras, genoani e non solo? Leoni famelici a cui è concessa assoluta libertà di nuocere? Niente di più falso. Dal decreto Pisanu, con l’introduzione del Daspo, fino alla schedatura preventiva imposta da Maroni, passando attraverso le proposte di Marco Reguzzoni, altro genio padano, che avrebbe sparato agli ultras con proiettili di gomma, non esiste categoria, se di categoria si può parlare, le cui libertà personali siano meno tutelate. Un esempio? Basta una segnalazione di un celerino, senza il beneficio della prova, perché ad un tifoso venga comminato il divieto di partecipare a manifestazioni sportive, magari con obbligo di firma in Questura. Salvo poi, in un parcheggio, prendersi un proiettile sul collo, sparato da un poliziotto che passava per caso.

Ingestibili, incivili, soprattutto violenti. Perché non accettano che calciatori strapagati (da loro, attraverso l’acquisto di biglietti e merchandising), non combattano per quanto hanno di più caro: ossia la propria città. Ecco cosa sono gli ultras: qualcosa di simile alle guardie del popolo che, nell’epoca preunitaria dei Comuni, non a caso quella culturalmente ed economicamente più vivace della storia della penisola, difendevano l’onore della città e della contrada di appartenenza. Onore la cui tutela è oggi delegata a giovanotti viziati, che a ben vedere dei tifosi sono anzitutto dipendenti. Star con stipendi da nababbi che non sanno come spendere, se non acquistando auto lussuose, salvo poi vendersi le partite, alla faccia di chi si rompe la gola per incitarli.

Se sono violenti, gli ultras lo sono soprattutto perché non accettano questa ed altre ingiustizie, questa ed altre violenze perpetrate a loro scapito: non è forse violento uno Stato in cui niente funziona, in cui ogni posizione di privilegio viene sfruttata a vantaggio di singole parti o individui, sulle spalle di chi, come i famigerati ultras, non gode di rendite di posizione o di amicizie di riguardo? Dove la giustizia non funziona, nemmeno quella sportiva? Dove gli arbitri sono chiamati al silenzio, mentre giudici e magistrati sproloquiano liberamente di procedimenti giudiziari in corso durante convegni politici? Dove tutto è in ritardo (altro che la partita Genoa – Siena), dai treni ai pagamenti della pubblica amministrazione (con effetti, quanto a quest’ultimo fatto, ben noti: la gente si suicida)? Dove le uniche cose puntuali sono le multe, le bollette, le tasse, gli aumenti di luce, gas e benzina, le lettere di licenziamento e le cartelle esattoriali?

Contro gli ultras, da un parte ci sono i benpensanti, dall’altra i benaltristi. Come l’amico Leonardo Facco, che si chiede (cito da Elogio dell’antipolitica), come mai “i tifosi e non solo quelli più accaniti, siano capaci di reazioni così veementi per difendere la propria squadra del cuore e al contrario non proferiscano parola quando lo Stato, quotidianamente, li deruba della metà di quel che producono e inventa nuove tasse per mantenere la propria macchina infernale”. Facco dimostra di non aver mai frequentato la curva di uno stadio. L’avesse fatto, avrebbe sentito i cori degli ultras, che, al di là degli schieramenti, fanno anche politica, soprattutto contro lo Stato. Non necessariamente sostenendo questa o quella parte, ma, attraverso il loro agire, contestando l’illicceità dello stesso organismo statuale. Un organismo in cui ogni rappresentanza, da quella politica, a quella sindacale, a quella delle associazioni di categoria, finisce per assumere espressioni del tutto funzionali al sistema.

Ecco perché l’unico luogo in cui una coscienza di gruppo si forma spontaneamente è la curva, dove, dietro a un simbolo che esprime l’appartenenza più immediata alla propria comunità, emergono sentimenti, anche violenti, di contestazione e di vergogna. Un’appartenenza di cui lo Stato ora vorrebbe censurare ogni espressione, anche quella più scomposta, in nome di un civico quieto vivere, che sia sottomesso a leggi criminogene (vedi il decreto Pisanu). Privati dei soldi, privati di ogni rappresentanza, privati anche della libertà: se così devono vivere i rispettosi cittadini italiani, meglio morire da ultras.

 

FONTE www.lindipendenza.com